Metafora – Racconto

Avevo cinque anni.

Mi fa sempre uno strano effetto, pensare a quando ero piccolo. Sembra passato un attimo, ma allo stesso tempo sembra che sia stato una vita fa.

Ma intanto, avevo cinque anni. Avevo cinque anni, e una bicicletta nuova. Era blu, mi pare. Blu elettrico, con il campanello giallo. Per me, era la bici più bella mai vista.

Se non sbaglio, anche il casco che dovevo indossare era giallo, con dei disegni sopra. Quello mi piaceva meno: mi tirava sotto al collo e mi rendeva la testa pesante. Però lo dovevo usare lo stesso, mi dicevano, altrimenti la polizia si arrabbia. Ora una scusa del genere mi farebbe un po’ ridere, ma all’epoca mi terrorizzava l’idea che mi potessero arrestare. Mi immaginavo queste celle umide e buie, come quelle di qualche libro, con

tanto di topi e scheletri. Se c’è una cosa che non mi è mai mancata, è l’immaginazione…

Insomma, avevo una bicicletta blu ed un casco giallo ed un campanello che faceva un acuto e squillante DLING! quando lo suonavo.

Ricordo ancora che per la grande occasione indossai i miei pantaloni preferiti (il che più tardi si rivelò essere una pessima scelta) ed una maglietta lunga a righe colorate. Il tocco di classe era un’ulteriore maglia rossa, stavolta con le maniche corte, che decisi di indossare sopra all’altra. Tuttora mi vergogno solo a pensarci. Ma mia mamma è sempre stata un po’ hippie, retaggio della sua infanzia anni Settanta, suppongo, e avevo moltissimi vestiti colorati. Chiaramente, essendo un bambino, non sapevo ancora sceglierli da solo, ma mi piaceva abbinarli nei modi più strampalati. Ripeto, mi vergogno non poco di questa mia scelta. In ogni caso, armato di righe, bici e casco giallo, mi sentivo invincibile. Credevo fosse Natale da quanto ero felice. Voglio dire, mica si riceve tutti i giorni una bicicletta nuova.

Vicino a casa mia ci sono due giardini, ma io non andai lì.

“Troppi bambini,” mi dissero, “rischi di andare addosso a qualcuno.”

Così, anziché andare al parco, mio padre mi portò in uno spiazzo con qualche albero, un po’ d’erba e tanti, tantissimi sassi. Di quelli piccoli, uggiosi, come direbbe mia nonna. Erano bianchissimi, in effetti: adoravo il contrasto tra loro, me, e la mia bici.

Ci salii sopra. Mi calai il mio elmo giallo con i pinguini sulla testa, e come un cavaliere che si preparava alla sua giostra. Solo che anziché l’amore di qualche bella dama, io volevo conquistare l’orgoglio di mio padre. Non che sia un padre cattivo, per carità. Ma ho sempre voluto, più di ogni altra cosa, renderlo fiero di me. Non so quanto ci sia riuscito.

Dicevo, calato l’elmo e montato il destriero, mi preparai a partire. Davanti a me, non più uno spiazzetto con qualche ciuffo d’erba, bensì una tribuna gremita di nobili scalpitanti. Potevo vedere chiaramente un anonimo cavaliere che mi osservava con aria di sfida, pronto a battersi con me. Il suo cavallo, altissimo e scuro come la notte, sbuffava irrequieto. In quel momento, con l’aiuto di mio padre che mi spingeva, staccai i piedi da terra e presi il via.

Immaginai di avere una lancia in mano, e di stare per disarcionare il mio avversario. Immaginai di aver già vinto, magari di avere un bellissimo e lucente trofeo in mano, e di voltarmi indietro verso mio padre, cercando disperatamente la sua approvazione.

In realtà, il primo problema si presentò quando realizzai di dover tenere gli occhi aperti per vedere dove stavo andando. Mi ripresi in fretta, comunque, e mi concentrai fisso sulla strada davanti a me. Il vento mi soffiava tra i capelli, prendevo velocità e sapevo che in quel momento, se avessi solo preso un po’ di slancio, avrei potuto perfino volare.

Fu a quel punto che arrivò il secondo problema… Vedete, andare in bicicletta è relativamente semplice appena si capisce come stare in equilibrio. Viene quasi spontaneo, oserei dire.

Effettivamente, non avevo preso in considerazione che mio padre prima o poi avrebbe lasciato la presa e mi sarei ritrovato a dover pedalare senza aiuto.

Per come ricordo la scena, spiccai un salto. Per un momento, solo per un istante, mi sentivo di volare. Ero leggero, più leggero di una piuma mentre mi libravo in cielo, ed esistevamo solo io, il vento, e le mie mani che cercavano mio padre senza trovarlo.

Avevo cinque anni, le ginocchia sbucciate, e tra le lacrime cercavo soltanto qualcuno che mi dicesse che sarebbe andato tutto bene.

 

 

 

Matilde Di Prima

Classe 4A – Liceo Classico Galileo di Firenze