Solo una sillaba – Racconto

Alex scelse il mercoledì perché entrambi i genitori avevano il turno del mattino. I vicini probabilmente avrebbero sparlato in giro, poteva scommetterci, ma il dopo era il dopo. Quel che contava era l’adesso e adesso non voleva che i suoi lo vedessero vestito così. Come minimo sarebbero sbiancati, senza contare che avrebbero cercato di fermarlo. E se avessero cercato di fermarlo, probabilmente Alex avrebbe ceduto. Ci sarebbero state lunghe, interminabili discussioni in cui avrebbero pianto a turno e poi… E poi. I pianti sarebbero venuti in ogni caso e magari anche i rimorsi, chissà, perché quella che stava per fare era una bella cazzata, ma andava fatta. Lo doveva a se stesso.

Alex guardò l’orologio, prese il coraggio a due mani e uscì conciato in quel modo.

Scese in fretta le scale, aprì il portone del palazzo e si ritrovò in strada.

Pian piano cominciò a camminare, titubante, cercando di tenersi il più attaccato possibile alle pareti delle case, cercando di non dare nell’occhio, ma con scarso successo. Tutti coloro che si trovavano a passeggiare sulla sua stessa strada e tutti coloro che si affacciavano dalle finestre lo fissavano attoniti, con espressioni a metà tra il ribrezzo ed il divertimento. Alex arrossì.

Nell’infinità di un attimo, gli balenò nella mente l’idea di tornare indietro, di strapparsi quei dannati vestiti di dosso e di mettersi la sua amata divisa da calcio. Si fermò al centro del marciapiede, ricevendo gli insulti e le prese in giro di chi gli passava accanto, chiuse gli occhi e versò qualche lacrima poi, stringendo il pugno destro come se stesse esultando dopo un goal, li riaprì e proseguì sicuro sulla sua strada.

Lui era più forte di tutto quello. La sua determinazione gridava più forte di tutti coloro che gli fischiavano o che gli urlavano «Torna a casa, frocio!»

Sì, lui era più forte. Era più forte perché stava lottando e non solo per sé.

Erano mesi che Alex stava maturando questa ribellione, che per lui valeva come una denuncia. Voleva denunciare cosa era successo qualche tempo prima, e non avendo un nome completo, non aveva altro modo.

Sapeva bene a cosa sarebbe andato incontro: sarebbe stato cacciato di casa non appena i suoi vicini avessero incontrato i suoi genitori e avessero raccontato loro di come lui era uscito di casa quella mattina. Non gli importava.

Non gli importava di niente in quel momento, il dopo era il dopo. Quel che contava era l’adesso, e adesso voleva solo raggiungere quel parco, incontrare quel ragazzo e farla finita lì. Erano mesi che voleva incontrarlo; aveva a disposizione solo un nome: Cristian, e con quell’unica informazione lo aveva cercato su ogni social. Sua sorella Lylia lo aveva aiutato nella sua ricerca, ed insieme lo avevano trovato e già il suo profilo Instagram suggeriva varie cose di lui… Una foto in particolare aveva attirato l’attenzione di Alex: era stata scattata nel parco della città, era un selfie che lo ritraeva sorridente, con la mano alzata in segno di vittoria.

«Certo che è bello…» aveva pensato Alex, «Bello e dannato».

Era stata proprio quella foto a convincere Alex a scrivergli, chiedendogli, dopo qualche mese, un incontro, il tutto fingendosi una ragazza. In quei mesi si era fatto crescere i capelli: gli arrivavano alle spalle e contornavano il suo viso, dai tratti morbidi e dolci. Visto di spalle, vestito da ragazza, era praticamente la copia di sua sorella.

«Mi dovrai prestare quei vestiti.» le aveva detto la sera prima, e Lylia era stata ben felice di accontentarlo.

Ora Alex era lì, in piedi, davanti all’ingresso di quel parco un tempo tanto amato. Aveva affrontato la cattiveria della gente in strada, che gli aveva vomitato addosso ogni possibile offesa, ma che non era riuscita a piegarlo.

Con lo sguardo fermo, il ragazzo attraversò il parco, ignorando gli sguardi della massa e si andò a sedere su una panchina. Aveva il respiro pesante, ed il cuore gli stava scalpitando nel petto. Era perso nei suoi pensieri, quando ricevette un messaggio dal ragazzo con cui doveva incontrarsi, che gli aveva scritto che non avrebbe potuto esserci prima di sera.

«Proprio come ha fatto con lei…» sussurrò Alex, che decise quindi di aspettarlo lì, seduto su quella panchina.

Verso le 20:30 si sentì chiamare, si alzò e lo vide: alto, biondo, con gli occhi neri ed un’espressione molto, molto bastarda stampata in faccia.

«Mi ricordi qualcuno…» gli sussurrò, «Piacere, Cristian».

Alex non rispose, si limitò a fissarlo.

«Ti hanno tagliato la lingua? Sappi che non sono qui per perdere tempo» disse allungando una mano verso i fianchi della “ragazza”.

Alex gli fermò il braccio.

«Verme…» gli sibilò, «sei un lurido, schifoso verme.»

«Come, scusa? » chiese attonito il ragazzo.

«Non mi hai sentito?» riprese Alex, «Non mi hai sentito, come non sentisti mia sorella dire “NO” qualche mese fa?»

«Ma chi sei?»

«Sapere chi sono sarà l’ultimo dei tuoi problemi, bastardo!»

«Sei venuto, ho capito che sei un ragazzo, a vendicare tua sorella, vestendoti da puttana come aveva fatto lei? Bella mossa…» sibilò.

Dopo quella frase, Alex non ci vide più: gli assestò un pugno sulla mascella, e lo fece sanguinare.

«Stai zitto. Vuoi trovare una scusa per ciò che hai fatto a Lylia? Ti aggrappi ad un paio di shorts anche per trovare scuse?» urlò con una violenza mai vista in quel ragazzo timido ed esile.

«Mi aggrappo all’evidenza. Guardati, guarda come sei vestito, capisci come era uscita lei quel giorno? Praticamente in intimo, tanto erano corti i pantaloncini e la scollatura della canotta che indossava. Non avevo bisogno che mi dicesse di sì, vestita in quel modo, me lo aveva detto nel momento esatto in cui l’avevo vista…»

«Lurido figlio di…» Alex si fermò: non poteva offendere la madre del ragazzo, era una donna anche lei, e non poteva avergli inculcato nella testa un tale comportamento barbaro.

«Che hai? Mi dai ragione adesso?»

«Non te la darei nemmeno se ce l’avessi, figurati in una situazione del genere».

Cristian rise, Alex gli tirò un altro pugno.

«Ridi, ora. Fammi vedere come ridevi mentre la stavi violentando. Ridi, ridi come hai riso quel giorno, ti posso giurare che, se ridi ora, non riderai più per tutta la tua vita, animale».

Stava per piangere, strinse i denti.

«Cosa pensi di aver ottenuto a prendertela con una ragazzina? Sapevi che non ti si sarebbe potuta opporre sotto l’aspetto fisico e te ne sei approfittato. È tornata a casa in lacrime, con un occhio nero e piena di lividi. Per un mese non è uscita di casa ed aveva paura anche di me. Da quando i vestiti dicono “sì”? Parlano per caso? Te lo dico io, idiota: NO!. Non parlano, parlano le persone, e lei aveva detto NO, una sillaba, una cazzo di sillaba che non sei riuscito a capire. Capisci i vestiti e non le persone, insegnami come fai perché a me, in tutta la giornata, non hanno mai parlato» gli vomitò addosso Alex, puntando i suoi occhi in quelli di Cristian. Il ragazzo non rispose, si limitò a sputargli in faccia.

«Certo che sei proprio stupido» gli disse allora Alex, che poi, dopo una pausa, concluse «ma questo lo sapevo già».

Lo lasciò lì, in quel parco, con il volto sanguinante ed il cellulare tra le mani, che scorrevano sulla tastiera. Alex aprì l’account Instagram della sorella, a cui, dopo quel fatidico giorno, aveva accesso anche lui, e lesse «So che non può cambiare le cose, ma scusa. Tu non mi hai mai detto di “sì”, ero io che avevo bisogno di sentirmelo dire, e non l’ho saputo accettare».

 

Laura Cappelli / Liceo Classico Galileo di Firenze – Classe 5B