…un nome da orsetto – Racconto

Sto camminando da ore su un prato verdissimo, infinito, senza confini. Il sole stava tramontando quando sono arrivata e adesso è pressoché dove era allora. Ora che ci penso, forse adesso è un po’ più a destra… di cosa non lo so, non c’è niente qui… Poco fa però ho visto un ragazzo con i capelli neri che aveva degli occhiali da sole ENORMI. Credo avesse più o meno la mia età, ma non ne sono sicura. Io ho provato a chiederglielo ma lui non mi vuole rispondere. Ogni tanto riappare. Continua ad indicare qualcosa a dritto, come a consigliarmi di andare da quella parte. E dove altro dovrei andare? E rieccolo…. Questa volta lo trovo seduto sull’erba, a gambe incrociate.

Io sono stanca di camminare, quindi mi lascio cadere di fronte a lui. Non dice o indica niente, così provo a fare conversazione. Mio padre dice sempre che devo guardare una persona negli occhi mentre le parlo, ma con quegli stupidi occhiali da sole riesco a malapena a vedere la sua faccia. Stupidi occhiali… Vorrei tanto che se li togliesse, ma decido di fare comunque un tentativo.

“Come ti chiami?” gli chiedo. É banale, ma è la prima domanda che mi è venuta in mente. Stupida me…

“Teddy” mi risponde lui dopo un bel po’ di tempo, durante il quale cerco di capire dove guardare.

“Ma è un nome da orsetto” ribatto.

“Mi piacciono gli orsetti…” dice lui. Come a darmene una prova, tira fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di Haribo e se ne mette in bocca un paio. Devono piacergli davvero tanto perché li ingoia senza neanche masticarli. Poi mi lancia il pacchetto, probabilmente con l’intento di offrirmi degli orsetti, ma sbaglia mira e mi colpisce dritta in fronte. Presa da una rabbia improvvisa glielo rilancio, ma devo aver calcolato male la traiettoria, perché il pacchetto vola a un pelo dalla sua testa e arriva così lontano che non lo vedo più. Umiliata, mi alzo e inizio a correre, ricacciando indietro le lacrime. Teddy urla delle scuse e si lancia al mio inseguimento. Adesso sembra quasi arrabbiato, e io corro ancora più veloce, presa da una paura irrazionale, come del resto lo è tutto in questa situazione surreale.

Quando mi accorgo di quanto questa scena sia ridicola, scoppio a ridere. Teddy coglie il mio attimo di debolezza e mi salta addosso, placcandomi. Io rido ancora più forte, ma mi fermo subito quando mi accorgo che qualcosa è cambiato: davanti a noi il prato verde verdissimo è interrotto da un muro di buio, così alto che non riesco a vedere dove finisce. A dire il vero, non so neanche se abbia una fine.

Oltre al confine tra il prato e il buio c’è il vuoto. Lo so perché una parte del mio corpo, dalla vita in giù, si trova da quella parte. E il caro Teddy in questo momento è l’unica cosa che mi impedisce di caderci dentro.

Frettolosamente, mi aiuta ad alzarmi ed entrambi ci allontaniamo dal confine. Noto che il Sole è ormai tramontato, e il cielo, che prima era ricoperto da nuvole colorate, si sta adesso velocemente tingendo di nero. Improvvisamente fa freddo e ho paura. Il mio cuore batte all’impazzata, come se stesse cercando disperatamente di uscirmi dal petto per scappare e nascondersi. Ma da cosa? E dove? Ormai siamo quasi completamente immersi nell’oscurità, e quel poco che c’è da vedere, ovvero Teddy e le nuvolette di vapore che mi escono dalla bocca, è illuminato da una luce opaca che, in una sera qualunque di una qualunque giornata normale, direi provenire dalla Luna. Solo che se adesso guardo in alto, non vedo assolutamente nulla. Allungo una mano tremante e stringo con forza quella di Teddy. I suoi occhiali devono essere caduti nel baratro: per la prima volta riesco a vedere i suoi occhi e da essi capisco che è terrorizzato quanto me. Non può proteggermi.

La Luna invisibile si spegne. Non vedo più niente. Ogni parte del mio corpo è paralizzata dal terrore. Ho paura solo a pensare, e se potessi, smetterei anche di respirare. Teddy mi tiene ancora la mano. Non riesco a vederla, ma è calda e sudaticcia, e mi trasmette quel poco di coraggio che mi occorre per permettermi di riprendere un minimo di controllo sul mio corpo.

Iniziamo a correre, mano nella mano, senza una meta. Non ha senso scappare, e da cosa poi? Ma, anche se volessi fermarmi, sento che le mie gambe non me lo permetterebbero. Per quanto ne so, potremmo cadere nel baratro da un momento all’altro. Di cosa succederebbe poi non ne ho idea. Non so niente. Non so neanche se voglio saperlo.

Stiamo correndo da pochi minuti, o forse da ore, quando all’improvviso mi accorgo che Teddy non mi sta più tenendo la mano. Impongo alle mie gambe di fermarsi. Cado. Lo cerco. Lo chiamo. Ma non c’è più tempo. Mi alzo e rinizio a correre, ma adesso non ho più un motivo per farlo. Mi tremano le gambe. Continuo a cadere, e a rialzarmi, fino a quando non ce la faccio più. Piango. Non fare la bambina, mi dico. Sono una bambina, però…

Apro gli occhi e balzo a sedere sul letto. Ogni fibra del mio corpo è in tensione, allarmata dal frastuono improvviso provocato dal maledetto tuono che mi ha svegliata. Odio i temporali quasi quanto odio il buio. La mamma deve essere passata a chiudere le tapparelle mentre stavo dormendo, come fa sempre. Di notte neanche me ne accorgo. Ho il sonno profondo, raramente mi sveglio, e poi, il letto di mio fratello è poco distante dal mio. Ma adesso lui non c’è, e io sono sveglia. Accenderei la luce, ma non ho né la voglia né il coraggio di alzarmi.

“Sei decisamente troppo grande per aver paura del buio”, mi rimprovero tra me e me. Con questa convinzione faccio scivolare un piede fuori dalle coperte, diretta verso l’interruttore, dall’altra parte della stanza. Neanche il tempo di appoggiarlo a terra però, che un altro tuono mi costringe a ricacciarlo al sicuro dove si trovava. Decido di essere troppo stanca per fare l’orgogliosa. Allungo una mano verso il comodino accanto al letto, e là lascio vagare le dita, frenetiche, fino a quando non trovano l’oggetto meravigliosamente soffice che stavano cercando. Solo quando riesco a stringerlo al petto, raggomitolata su me stessa e protetta da una barriera impenetrabile di coperte, riesco a tranquillizzarmi. Avevo completamente dimenticato il sogno fatto poco prima, ma almeno mi era rimasto un po’ di sonno. Dal mio abbraccio soffocante, riesco quasi a percepire lo storico orsetto Teddy guardarmi con disappunto. Lo lascio stare, ormai stanca.

“Posso permettermi di non essere coraggiosa almeno per un altro po’…”, gli sussurro dolcemente nelle orecchie di stoffa, giusto un attimo prima di addormentarmi.

 

 

Stella Alemanno

Classe 1H – Liceo Classico “Galileo” di Firenze