Vorrei… – Racconto

“Vorrei un castello.” 

“Vorrei essere ricco.” 

“Vorrei scarpe di tutti i colori.” 

“Vorrei diventare un elfo che custodisce una pentola d’oro alla fine dell’arcobalen… Ah già, solo tre desideri, non è vero?” 

L’uomo sbuffò annoiato, guardando impassibile il piccolo essere fluttuante che respirava affannosamente, la mano destra ancora ferma nell’ultimo schiocco di dita. 

“Bene, allora ho finito. Genio, torna dentro” esclamò quello sistemandosi meglio la corona sulla fronte, mentre le tasche dei pantaloni da ginnastica tintinnavano per le monete d’oro ricevute. 

Il Genio, per gli amici che non aveva Oineg, fece un rapido inchino prima di essere risucchiato in una vecchia e brutta lampada arrugginita. 

L’uomo si allontanò fischiettando con le sue nuove scarpe color magenta, felice come una pasqua per i desideri ricevuti. Non vedeva l’ora di dirlo a sua moglie. 

 

E così era di nuovo solo. Sperava soltanto di avere presto un nuovo padrone. 

Oineg si ritrasse all’interno della lampada avvolto in un buio terrificante in cui non si sentiva altro che il suo cuore battere forte dentro la sua cassa toracica. 

Lanciò un’occhiata alle pareti della sua prigione senza riuscire a scacciare quella malinconia che ormai lo affliggeva da qualche tempo. Da quando si era reso conto della maledetta fortuna degli esseri umani. Mille volte più deboli, ma diecimila volte più fortunati. 

Loro potevano uscire, conoscere altri, invece di essere segregati in una lampada, completamente da soli e in un corpo da fantasma semitrasparente solo perché si era la creatura più potente al mondo. 

Oineg si alzò da terra sfiorando con le lunghe dita azzurrine i contorni della lampada. Perché gli era toccato un tale destino? 

Di colpo un rumore lo fece sobbalzare. 

Doveva essere arrivato un nuovo padrone. 

Sperava solo che non gli chiedesse ancora di essere un elfo. Non capivano mai che non era reversibile. 

Però nessuno lo chiamò fuori. Restò vario tempo in attesa, ma nulla. Chissà cos’era successo nel mondo esterno. 

Non sapeva infatti che qualcuno aveva afferrato la lampada dal cantuccio in cui era stata abbandonata, ma non per usarla, quanto piuttosto per buttarla nel cestino dei rifiuti sotto casa. 

Erano infatti iniziate le pulizie di primavera e la signora Gommery odiava ogni genere di disordine, soprattutto in quello scantinato là in basso dove andava una volta ogni morte di papa. Per cui, quando aveva visto quel catorcio abbandonato, aveva pensato bene di liberarsene prima che sua figlia iniziasse a dire che era importante. 

La lampada fu poi presa dal camion dei rifiuti e gettata insieme al resto. Peccato che Oineg si perse tutto il bel giro per i cassonetti della città fino alla discarica in periferia dove la sua amata casa fu lasciata in una delle tante montagne di oggetti su dei nastri trasportatori. Erano infatti tutte cose pronte a essere trasformate in qualcos’altro. 

All’interno della lampada Oineg sentiva ormai uno strano odore. Forse qualcuno stava nuovamente cucinando il pesce fritto. L’unica fortuna di non essere umano era appunto quella: non doversi nutrire di quegli strani cibi con cui si nutrivano. 

Sentì intorno a lui altri rumori che non riusciva a definire e poi… il disastro. 

Alzò lo sguardo vedendo il soffitto iniziare ad abbassarsi senza sosta. Oineg si muoveva su e giù, cercando di fermare qualunque cosa stesse succedendo. Schioccava le dita come se non sapesse da solo che lui purtroppo non poteva esprimere desideri per se stesso. 

Le pareti si stringevano sempre di più e lui si sentiva soffocare. Fece un ultimo sforzo pensando al volto di un precedente padrone. 

Qualcuno di loro avrebbe potuto salvarlo, perché non c’era nessuno? 

Le mura erano ormai addosso a lui e Oineg chiuse gli occhi con tristezza. 

Così dunque doveva finire il Genio della lampada? 

Un attimo prima di venir schiacciato si ritrovò fuori, tra i rifiuti, mentre sopra di lui stava una bizzarra macchina che comprimeva tutti gli oggetti del mucchio, spedendoli poi tra le fiamme più avanti. 

Oineg uscì subito dalla traiettoria del marchingegno, spaventato. 

Dov’era? Che stava succedendo? Si guardò attorno senza più trovare niente di familiare, senza più avere nulla in cui rifugiarsi. 

La sua unica dimora e protezione era stata distrutta e… ora che avrebbe fatto? 

Un’espressione di sorpresa uscì dalle sue labbra quando si rese conto di non essere più fatto di fumo. 

Sempre azzurro sì, ma adesso vedeva delle… gambe? Era così che gli umani le chiamavano? 

Avrebbe voluto urlare il nome del suo vecchio padrone, di chiunque, purché lo aiutasse, purché gli facesse capire cosa stesse accadendo. 

Nessuno però si accorse di lui. Non davvero almeno. 

I lavoratori dello scomparto rifiuti gli passarono al suo fianco dicendogli solo di smettere di poltrire e smuovendolo a malo modo. Il ragazzo si ritrovò a terra invocando solo di ritrovare il suo padrone, ma tutti risero senza dargli ascolto. 

Oineg si alzò in piedi quando uno di loro gli porse la mano iniziando a correre come un matto. Cercava qualcosa di conosciuto per ritrovare la strada di casa, per ritrovare quel padrone, unico suo punto di riferimento. 

Ma dove andare, ora? 

Camminò a caso per le strade rischiando di farsi travolgere dalle macchine in corsa. I piedi scalzi gli bruciavano per l’asfalto riscaldato dal sole, ma non sapeva più cosa fare. 

Incontrò una buca e cadde riverso a terra. Rimase fermo così, il cuore che batteva forte, la testa che gli girava e il panico che cresceva ad ogni secondo. 

Che doveva fare? Era vissuto sempre in una lampada, escluso da tutti e al riparo da tutto e adesso era lì da solo senza modo di tornare indietro, in un mondo che non conosceva. 

Il padrone avrebbe dovuto volerlo con sé, era l’unica cosa che riusciva a pensare, dopotutto gli aveva fatto tanti favori, se lo meritava, no? 

Rincuorato da questa prospettiva possibile si rialzò, spolverando le ginocchia sporche di sangue e polvere e ricominciò a correre. Ricordava solo una cantin… ma quello? Si immobilizzò di colpo. 

Chi mai poteva essere se non lui? Chi indossava delle scarpe tanto colorate? 

Andò più in fretta chiamandolo a gran voce fino ad arrivargli di fronte. 

“Padrone, sono io, il Genio. Si ricorda?” 

L’uomo lo scrutò impassibile. “Chi saresti?” 

“Sono il Genio, quello che l’ha resa così ricc…” 

Il padrone gli poggiò una mano sulla bocca stringendo il ragazzino a sé. “Puoi esaudire altri desideri, genietto?” 

“No, ma…” 

“Allora che vuoi?” 

“Vorrei chiederle aiut…” 

“Vattene di qui. Io non ti devo niente, capito? Sparisci!” 

Una donna si stava avvicinando a loro, tutta felice. 

“Va’ via e non farti più vedere.” lo minacciò il padrone di un tempo, spingendolo via prima di mettere su un bel sorriso per la moglie. 

“Hai visto che bravo che sono stato?” 

La donna gli accarezzò il volto prima di scoccargli un bacio. “Davvero bravissimo” disse.

Durante tutta questa scena Oineg era a due passi, a bocca aperta e con gli occhi rossi. La coppia si allontanò allegra e lui rimase lì nel mezzo della strada. Completamente e definitivamente solo. 

Le lacrime iniziarono a sgorgare implacabili, ma quasi non se ne rese conto mentre vedeva andarsene l’unica sua speranza di salvezza, l’unica sua soluzione. 

Si accasciò a terra, le gambe strette al petto. Non aveva più nulla da fare adesso. 

Pensava che il padrone gli volesse un minimo di bene, lo aveva così tanto aiutato e invece… e invece non gli importava nulla di lui. Era solo un oggetto, uno stupido genio da usare per i suoi tre desideri, nient’altro. Non valeva assolutamente niente, ecco tutto. 

Sobbalzò quando sentì qualcosa strofinarsi alle sue gambe. Aprì la bocca per urlare, ma poi riconobbe l’essere sotto di lui. 

Un cucciolo di cane gli girava attorno, mugolando piano. Appena l’animale si accorse che il Genio l’aveva notato, iniziò a leccargli la gamba, invitandolo ad accarezzarlo. 

Oineg lo guardò incerto, poi poggiò la mano sulla pelliccia scura iniziando a muoverla su e giù, sentendo morbido. Al cane sembrava piacere perché iniziò a saltellare fino a finirgli in braccio. 

Oineg sorrise alla vista continuando ad accarezzarlo. Poi però di colpo decise di lasciarlo andare. Di sicuro anche lui, anche se era un cane, anche se non poteva parlare, lo avrebbe usato soltanto. 

Iniziò ad allontanarsi con le lacrime agli occhi, di nuovo, perché non voleva più nessuno. 

Aveva fatto solo qualche metro quando si ritrovò quel batuffolo nero davanti. Lo scansò continuando il suo tragitto verso non si sa dove, ma ancora il cane lo seguì. E così fece per circa un’ora mentre il Genio cercava di seminarlo. 

Alla fine si arrese. Si sedette sul terreno e lasciò che il cane gli salisse in braccio. 

Lo accarezzò piano tra le orecchie prima di sussurare: 

“Grazie. Per te sono solo Oineg, okay?” 

Il cane non rispose, soltanto si accomodò un po’ meglio tra le sue braccia. Sul volto del genio comparve un lieve sorriso, felice per la prima volta dopo tanto, tanto tempo.

 

 

Sara La Torre

Classe 4C – Liceo Classico Galileo di Firenze