L’estate dimenticata – Racconto

Alice correva rincorsa da Lucas, l’erba che sfiorava i loro piedi nudi, sporchi di terra dopo una giornata fuori a giocare. Emily sedeva vicino al pozzo, intrecciava delle corone con le margherite colte lì intorno, il suo vestito una volta azzurro ora era coperto di macchie d’erba. Il sole era alto nel cielo, si specchiava nell’acqua limpida del lago; la sua superficie immobile fu rotta quando, con un grido di gioia, i bambini si buttarono in acqua. Sentii Karin, distesa a prendere il sole, urlare quando i piú piccoli, bagnati fradici, si distesero su di lei.
– Dai Lennart, vieni a giocare! – La testa di John spuntò da dietro un ammasso di alghe. Scossi la testa come muta risposta. Amavo giocare con i miei fratelli ma avevo bisogno di stare un po’ da solo.
Le risate dei bambini riecheggiavano nella calda aria estiva, dalla quale mi tenevo al riparo sotto la chioma del ciliegio. Con la coda dell’occhio vidi qualcosa muoversi nel cespuglio dove i primi lamponi tingevano le foglie di rosa:uno scoiattolo mi sfrecció davanti, si fermó ad annusare l’aria per poi saltellare via.
– Che carino… – disse una voce alle mie spalle. Mi girai di scatto e vidi un groviglio di capelli rosso fuoco scendere dalla sua bici arruginita.
– Anna, dov’eri? – lei arrossí, che cosa stupida da dire, sembravo uno psicopatico, come se stessi tutto il giorno ad aspettare il suono cosí familiare delle ruote della sua bicicletta che sfregavano sul selciato, come se questa mattina mi fossi svegliato pensando a lei, e cosí quella precedente a questa, e quella precedente all’altra…

La porta si aprí di scatto, i passi pesanti dello zio Henry attraversarono la stanza verso il letto dove dormiva nonno, o almeno speravo dormisse; guardai il macchinario al quale era attaccato. Tirai un sospiro di sollievo. Nonna Anna si alzó dalla sedia sulla quale era stata seduta tutta il pomeriggio tenendo per mano nonno, sussurrando il suo nome quando credeva che non la sentissi, Lennart… Zio Henry la avvolse in un abbraccio e le accarezzò i capelli una volta cosí rossi.
– Io esco un attimo – dissi piano, ma nessuno dei due mi sentí. Uscii in corridoio, non sopportavo di vedere nonna piangere, di nuovo. Il silenzio riecheggiava tra le pareti grigie dell’ospizio per malati di Alzheimer. Il nonno aveva mostrato i primi sintomi della malattia piú di dodici anni fa, la situazione però era precipitata due anni fa e nonno era stato costretto a trasferirsi qua.

John mi sfrecció davanti, delle gocce d’acqua sguizzarono fuori dalla brocca che avevo apppena rempito.
– Ehi! – esclamai.
– Scusa, non volevo – disse con un sorriso idiota stampato sulla faccia prima di correre via. Alzai gli occhi al cielo. Raggiunsi il tavolo da pic-nic dove Karin e Emily stavano poggiando le ciotole e i bicchieri. Emily alzó un dito, vidi le sue labbra muoversi mentre contava i posti a tavola. La gola mi si annodó quando realizzai.
– Ehm, – perché la mia voce era cosí roca?- C’é un posto in più – dissi. Lei si immobilizzó, sbiancó.
– Scusate, ho contato male – disse, per poi dirigersi verso il posto a capotavola, il posto in più, il posto che ormai non doveva piú essere apparecchiato, il posto di papá. La osservai rientrare in casa con il piatto vuoto .
– Lennart, l’acqua.. .- sbattei le palpebre, Karin mi guardava con sguardo triste.
– Sí, scusami – appoggiai la borraccia sul tavolo.

Mamma era in piedi, stretta a zio Henry. Lacrime amare rigavano il suo viso impiastrato di trucco. Qualcosa di umido mi bagnava la guancia, mi asciugai gli occhi con la manica della maglietta, i nonni me l’avevano regalata lo scorso Natale, strisce rosse si alternavano a quelle nere, non era cool, sicuramente i miei amici l’avrebbero ritenuta stupida, ma a me non interessava. Osservai il nonno in silenzio ascoltando i singhiozzi di Lea,e quel maledetto bip, il suono che durante le ultime settimane mi aveva tormentato, che si andava affievolendo con il passare dei minuti…

Eravamo tutti sdraiati per terra con lo sguardo rivolto al cielo. La notte era punteggiata da migliaia di puntini bianchi. Era giugno inoltrato ma l’aria fredda della Svezia mi fece comunque rabbrividire sotto la coperta troppo fine. Lucas starnutí improvvisamente, Alice si alzò con uno scatto e cacciò un urlo.
– Che schifo! Mi hai starnutito in faccia! – gridò.
Lucas cominció a sghignazzare, iniziò a tirare manciate di terra ad Alice, il che la fece strillare ancora di più.
– Femminuccia! Femminuccia!- urlò Johnny, e io mi unii al coro. All’improvviso qualcosa di freddo e bagnato si andò a schiantare sulla mia maglietta. Non riuscii a impedirmi di strillare, con una voce decisamente troppo acuta per un uomo.
– Maschiuccio! Maschiuccio! – Emily mi sorrideva con aria di scherno, la mano imbrattata di fango.
Senza pensare affondai le dita nel terreno e presi una manciata di terra…

Contemplai il volto del nonno: la confusione che aveva segnato il suo viso durante tutti questi anni sembrava svanita. La sua fronte perennemente aggrottata ora era distesa, ripensai a tutte quelle volte che nonna lo aveva rimproverato perché lui se la strofinava e grattava fino a farsela sanguinare. Sussultai, nella stanza era calato il silenzio, tutti smisero improvvisamente di piangere, nessun rumore…

La stanza sprofondava nel silenzio, il buio avvolgeva tutto come una coperta. La porta di legno si aprí cigolando. Mamma infilò la testa nella stanza e poi sgattaiolò dentro cercando di fare meno rumore possibile, una planca di legno cigolò leggermente sotto il suo peso.
– Mamma… –
– Scusa, tesoro ti ho svegliato – Mamma si avvicinó al mio letto.
– Mi manca papà – dissi improvvisamente.
– Oh, tesoro… – si sedette sulla sponda del mio letto e mi tirò a sé.
Karin accese la luce e l’illuminazione fioca della lampada rischiarò la camera da letto. Mamma sospirò.
– Venite tutti qua, dai! – Tirò fuori un libro con le storie della buonanotte dal comodino e cominciò a leggere. Ero decisamente troppo grande per questo, di sicuro non era una cosa da uomo, ma non mi importava.

I suoni provenienti dall’esterno parvero ovattati. Udii una porta chiudersi, il cigolio lontano di una carrozzina. Una risata riecheggiò tra i corridoi, seguita da passi che si allontanavano. La quiete sovrannaturale era stroncata dal rumore del silenzio lasciato dal macchinario…

Mamma ci avvolse in un morbido abbraccio. Io, Karin, Emily, Alice, John, Lucas e Mamma. Mamma, Lucas, John, Alice, Emily, Karin ed io. Sentivo l’odore di libertà e di estate ancora impressa nei capelli dei miei fratelli, Mamma che sapeva di pane fatto in casa. Sentivo i piedini di Lucas sulla mia gamba, il braccio di Karin intorno alle mie spalle. Mi strinsi ancora di piú nell’abbraccio e chiusi gli occhi, sperando di poter rimanere così per sempre.
Rebecka / Scuola Secondaria di primo grado Puccini di Firenze