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Un viaggio indimenticabile. Un ricordo lontano – Racconto

 
Sono nato nel 2006, per l’esattezza era il 14 agosto. Nacqui in una famiglia numerosa, composta da mia madre, mio padre, mio fratello Freedom e infine io, il fratello maggiore, mi chiamo Jonathan. Ricordo poco dei miei genitori, so solo che mia madre e mio padre lavoravano tanto per mantenerci. Abitavo in un casetta lontana dal villaggio e io e mio fratello aiutavamo mia madre nei lavori domestici.
Mio padre era spesso fuori per lavoro, non ricordo bene che lavoro facesse, ma molte volte tornava a casa tardi. Io e mio fratello alcune volte eravamo a casa soli a giocare o a parlare dei nostri sogni e dell’indomani. Inoltre ricordo che quando faceva freddo io e la mia famiglia uscivamo fuori e accendevamo un piccolo falò con cui riscaldarci. Una volta avevo le mani tese verso il fuoco, quando un signore, bruscamente si mosse e mi fece cadere con le braccia nel fuoco. In quel momento urlai come un matto, sentivo un dolore atroce: mi ero ustionato il braccio sinistro. Pian piano il dolore passò come passarono i giorni.
 
Un giorno mia mamma mi disse che usciva per fare delle commissioni e disse di aspettarla in casa e che il babbo era con lei.  Io e mio fratello aspettammo per ore e ore, ma non intravedevamo nessuno. Il giorno dopo uscimmo per cercare i nostri genitori, ma durante il nostro cammino incontrammo la polizia che ci chiese come mai non eravamo con un adulto. Agli agenti raccontammo tutto senza lasciar alcun dettaglio. Loro ci dissero che non potevamo stare soli e quindi ci avrebbero accompagnati in un orfanotrofio, dove delle badanti si sarebbero prese cura di noi. Ritornammo a casa con la polizia per prendere i nostri vestiti e giocattoli. Per la prima volta salii in un’auto che era addirittura della polizia. Guardai mio fratello e gli feci uno sguardo affettuoso per tranquillizzarlo, gli dissi che ci avrebbero portati in un orfanotrofio. All’inizio nemmeno io sapevo cosa significasse la parola “orfanotrofio”, ma dopo aver trascorso il mio tempo in quel grande edificio che ospitava numerosi bambini, capii cosa fosse. Il suo significato era bello, ma io volevo stare con la mia famiglia “vera” e non con altri bambini. In realtà non sapevo dove stare e dove andare, dato che era stata proprio la mia famiglia ad abbandonarmi: quello che sapevo era che avrei trascorso anni e anni dentro a quell’istituto. L’ idea di stare lì non mi dispiaceva, a me bastava stare con mio fratello per non lasciarlo solo in preda al panico.
La vita lì dentro procedeva bene, era una vita normale.  Non sapevo cosa fosse normale o cosa no, avrei voluto tanto vivere la normalità, dicevano che fosse bellissima e che se la vivi sembra di essere in paradiso. Io una vita normale non l’ho mai avuta e credo che sia stato un bene.
A curarci c’erano delle donne, di tutte le età, noi le chiamavamo “didi”o “sister” perché alcune di loro erano suore, infatti indossavano un abito rosa chiaro. Erano loro che ci insegnavano la nostra lingua madre, ci davano il cibo, ci vestivano, insomma ci aiutavano nelle attività quotidiane. Il cibo che mangiavo era molto più buono di quello mangio oggi, aveva sapori diversi e buoni perché usavano delle spezie.
Maschi e femmine dormivano in stanze diverse; i bambini piccoli riposavano in un’altra stanza e chi si alzava la notte per andare in bagno (solo se se ne accorgevano) veniva picchiati con delle barre di ferro molto dure. Altre volte, invece, se non ritenevano la punizione soddisfacente, ci facevano stare in delle posizioni molto scomode e dolorose per la schiena. Tra noi maschi alcuni ragazzini, quelli più piccoli, piangevano e urlavano di dolore. Io sono stato zitto anche se avrei voluto contraddire le azioni delle didi.
Ricordo un giorno in cui accadde un avvenimento incomprensibile. In quel giorno ebbi molta paura, ma in molti mi dissero che avevo avuto coraggio. Infatti dopo un po’ di tempo mi accorsi che avevano ragione: in quel giorno fatale, una delle nostre custodi ci disse che doveva andare dalla direttrice e ci affidò ad un ragazzino più grande di noi di alcuni anni. Il giovane era alto e robusto, ci guardava con occhi accusatori; dopo qualche ora, stanco di guardarci, cominciò a scrutarci e uno dopo l’altro ci frustò con una cintura di pelle. Arrivato il mio momento, lo guardai e mi girai verso il muro. Mi sedetti in una posizione favorevole, in modo che quando avrebbe provato picchiarmi sarei scappato; lessi la paura negli occhi di tutti i bambini che mi guardavano male, come per dirmi codardo. Gli dimostrai che non ero codardo, anzi che il coraggio ce lo avevo solo che… sì, avevo paura. Stetti immobile per un secondo e poi BAM! Mi colpì forte e nel viso. Non so perché, ma tutti mi applaudirono. Dicevano: “Bravo!”
Quel giorno non me lo scorderò mai, anche se è stato un giorno brutto.  
Ricordo invece il giorno più magnifico della mia vita: il giorno in cui arrivai per la prima volta in Italia.
Un giorno si presentarono due genitori nell’orfanotrofio: non li conoscevo e non avevo neanche l’idea di andare con loro. Il giorno dopo ritornarono, ma questa volta non fui sorpreso perché il giorno prima ci dissero che ci volevano adottare e che saremmo andati via da quel posto. Ci dissero tante cose, ma quella che più mi aveva colpito era che dopo ben quattro anni saremmo andati a vivere in altro luogo in cui magari saremmo stati trattati da umani. Dopo molti mesi finalmente partimmo su un aereo: avevamo preso l’aquilone più grande del mondo e finalmente dopo ore di viaggio arrivammo in aeroporto. Era molto affollato. Ovviamente mio fratello minore si sentì male, aveva la nausea e inoltre gli faceva male la testa.
Mia madre, che era in preallerta, andò subito in infermeria dove mio fratello dopo un’ora ritornò a stare meglio. Finalmente ci avviammo verso la porta dell’aeroporto che, quando si aprì, mostrò una folla smisurata di persone ad attenderci. Mi sentivo una star! C’era un sacco di gente che ci guardava stupita, ci sorrideva, piangeva e dopo ci fece tante domande e naturalmente io e mio fratello non capivamo niente. Dopo diverse ore trascorse per conoscere tutta quella gente (anche solo di vista), finalmente salimmo sull’auto di mio padre adottivo e ci avviammo verso quella che sarebbe stata la nostra nuova casa. Appena arrivati io e Freedom andammo in giro per la casa a curiosare: era enorme e inoltre c’erano anche due gatti! Passarono anni e anni, crescemmo, imparammo l’italiano, conoscemmo nuove persone e ci facemmo nuovi amici. La mia vita proseguì alla grande.
Anch’io, come i miei genitori, spero da grande di poter adottare un bambino per potergli raccontare la mia esperienza da figlio adottivo: questo è il mio desiderio!
Sandhya / Scuola Secondaria di primo grado Puccini di Firenze