Quel che resta – Scritto sul corpo

A volte si fermava.

Accadeva all’improvviso, senza che lo volesse. Era come se la sua mente a un certo punto smettesse di funzionare, incapace di prendere decisioni, incapace di dare ordini, e come un’orchestra senza direttore, anche il suo corpo si immobilizzava. Durava poco, una manciata di secondi, e poi si ritrovava lì, lì dove si era fermata. Si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

A volte si fermava.

Lo voleva. Aveva bisogno di farlo. Poi si guardava intorno, con gli occhi spenti, senza parlare, un macigno in petto. Il cuore accelerava e lei si sentiva senza fiato. Era in mare, con la sola mano che affiorava dall’acqua. Sotto scalpitava, e più scalpitava, più si sentiva affogare. E poi riusciva a risalire, con i polmoni alla spasmodica ricerca d’aria, aria che più entrava e più il corpo ne voleva. Era uscita fuori dal suo controllo. Ma all’improvviso l’aria c’era, la sentiva, e allora si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

A volte si fermava.

E pensava. Rivedeva scorrere la sua vita, momento dopo momento, lacrima dopo lacrima, e le lacrime cominciavano a scorrere, senza un motivo preciso, pensando a quanto aveva perso. E a quello che restava. Si toccava il volto, le braccia, per avere un segno tangibile della sua presenza in quel preciso posto, in quel preciso istante. Si sentiva proiettata in una dimensione che non le apparteneva, il suo corpo non le apparteneva, un oggetto estrinseco, distante, vuoto. Lei non lo riempiva, e il corpo non conteneva lei. Eppure era lì, seduta sul divano, o alla scrivania, o distesa a letto, ed era consapevole di essere lì, ma non si sentivalì. Si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

Non lo era.

Cambiava ad ogni passo, plasmava le sue apparenze, indossava e si spogliava di abiti che non le si convenivano,che coprivano il suo essere e al tempo stesso la lasciavano nuda, indifesa. Era lei che doveva adattarsi agli altri, non il contrario. E cambiava, sì che cambiava, ma era sempre lei, era sempre la stessa di prima, la stessa di prima.

Prima.

C’era un prima? C’era. Nitido nella sua mente.

Si guardava allo specchio. Di notte, con le luci soffuse. Le sembrava di scomparire. E la penombra che la circondava si fondeva con il suo corpo. Il suo corpo.

Suo. E osservava quel che restava di lei, una cornice sbiadita, persa nel buio, che pareva racchiudere una tela già dipinta, ma non da lei. I colori depositati sul bianco della tela erano già decisi. E lei non li conosceva, non ne era padrona, non poteva cambiarli. Non riusciva a seguirli, a controllarli. Eppure quei colori su una tela già decisa le sfuggivano, colavano come le sue lacrime, che le solcavano il viso, come in quel momento lì. In quel momento, quello che aveva determinato un prima e un dopo.

E stava ancora davanti allo specchio.

Si abbracciava, stringeva le sue braccia. Si convinceva che quello che restava di lei era abbastanza. Che lei era abbastanza.

Era una donna. E come tale, la sua tela era già dipinta. Ma aveva voglia di strapparla quella tela. Lui non ci poteva più dipingere sopra.

E aveva voglia di urlare. E lo faceva.

Poi si fermò.

Si portò le mani davanti al volto e strinse le dita.

Riuscì a parlare.

E non si fermò più.

Simone Di Minni