Il modello NBA: una garanzia di immagine e sicurezza

Da tempo sappiamo che la NBA, purtroppo per noi italiani, è il maggiore campionato cestistico professionistico al mondo. Quello che però gira intorno a tutta l’organizzazione è molto, ma molto di più. Infatti, nel corso degli anni, il business dell’NBA è cresciuto sempre maggiormente: contratti ultramilionari, viaggi senza badare a spese, alti tenori di vita e ritmi stressanti impongono a chi vive il mondo del basket americano uno stile di vita altisonante. Chi lo segue sa che il campionato è composto da 82 partite per ciascuna squadra, 30 in totale, che contemplano lunghe trasferte e poche pause e che vanno da ottobre a giugno (playoff compresi). Ciò che però quest’anno è stata in grado di organizzare la lega, è qualcosa di davvero inarrivabile. La gestione dell’emergenza Covid, in piena pandemia negli Stati Uniti, con impressionanti picchi verso l’alto nella curva dei contagi, rappresenta un modello, non solo per quanto riguarda serietà e diligenza; il comportamento costruttivo adottato dall’associazione ci fa intendere che è realmente possibile praticare questo sport in condizioni di sicurezza anche durante un momento in cui incombe il pericolo sanitario.

La NBA, guidata dal commissioner Adam Silver, ha erogato quasi 180 milioni di dollari per predisporre una serie di servizi di prevenzione medica che garantissero massima sicurezza a tutti i giocatori e ai membri dei diversi staff. Il tutto senza percepire nessun tipo di entrata se non da parte di sponsor. Risultato: 3 mesi di permanenza nella bolla: zero positivi. La scelta adottata dal consiglio presieduto da Silver ha stabilito di attuare la cosiddetta “bolla” a Orlando, Florida, nel complesso di DisneyWorld. Per la conclusione della regular season, si è deciso di richiamare solamente 22 delle 30 squadre totali. Nella prima fase sono state quindi ospitate all’interno della gigantesca struttura della Disney 35 membri per ogni squadra e 770 addetti ai lavori: un numero impressionante, se proviamo semplicemente a pensare cosa potrebbe comportare un coinvolgimento così ampio di persone. Con un lungo dossier di oltre 100 pagine spedito a tutti i giocatori NBA, la lega ha comunicato alle 22 squadre rimaste in corsa le modalità con cui sarebbe stato organizzato il ritorno in campo a Orlando. Tra regole, divieti e sanzioni, la bolla è stata inaugurata ufficialmente il 3 luglio 2020, con lo scopo di far terminare il campionato, interrottosi a marzo causa Covid, e di assegnare il titolo anche in quest’anno così particolare. Ma in cosa consiste questa bolla? Tutti i partecipanti si sono ritrovati coinvolti in una situazione surreale: lontano dalle loro famiglie e isolati ognuno in una camera d’albergo, uscivano da questa solamente per svagarsi o andare a giocare.

Ovviamente sono state impiegate precauzioni altissime per prevenire il contagio e altre dotazioni e misure a cui sono stati sottoposti tutti i membri della bolla: quarantena obbligatoria di 14 giorni qualora ci fosse stata la necessità di uscire e rientrare dal complesso; squalifica immediata (il caso Danuel House, che ha invitato una donna nella propria stanza) nel momento in cui si fosse entrati volontariamente in contatto con qualcuno di “esterno” e persino un anello per monitorare le condizioni di salute dei giocatori, anticipando l’esito del tampone se si fossero verificati degli scompensi riconducibili al Covid-19. Il tutto è avvenuto senza il pubblico ovviamente, collegato solo virtualmente da casa durante le partite. La NBA ha pensato perciò a tutto, a partire dai barbieri fino ad arrivare alle attività ludiche organizzate per gli “ospiti” come kick ball, pesca, videogiochi, beach volley, ping pong e molto altro. Con 8 squadre rimaste, si è poi deciso dopo quasi due mesi di isolamento, di ospitare all’interno della bolla tre membri a scelta della famiglia di ogni giocatore. Quotidianamente sono stati eseguiti quindi migliaia di test fino al giorno della chiusura, il 12 ottobre scorso.

In conclusione, il sistema presentato dalla NBA non ha evidenziato alcun tipo di falla. Possiamo quindi dire che non solo Silver e tutta l’organizzazione non avrebbero potuto fare di meglio, ma siamo certi che se tutti potessero prendere ispirazione da questo modello, lo sport in generale ne risentirebbe molto positivamente.

articolo a cura di Niccolò Martucci, Luca Pandini
Nicolas Baruzzi, Riccardo Dattolo e Tommaso Furlanetto