IL GELATO E’ SCIOLTO

di Giordano Cristiana
Istituto comprensivo ‘Gullo’ di Cosenza

Con quest’afa l’acqua del mare deve essere calda, i pesci riposano nel suo tepore. E’ una notte buia
e tempestosa, ma non nel mondo fuori casa mia, lì è estate. Agosto. I grilli cantano e le rane
gracidano vicino al fiume. Il buio è nel mio cuore, nella mia mente. Sento l’ansia che sale fino a
soffocarmi. Non riesco a respirare. Mille pensieri si affollano in me. Il presagio di ciò che sta per
succedere mi schiaccia contro la parete. Mi chiudo in me stessa come se questo potesse
proteggermi dall’inevitabile. Ho voglia di urlare, urlare tutto al mondo, ma chi mi crederebbe?
Deturpata da un marito con la divisa. Mi direbbero di trovare qualche altra scusa per divorziare.

– Lui è fonte di speranza per molti.
– Lui i diritti li rivendica, non li infrange!
– Tu sei pazza. Qualunque donna lo vorrebbe per marito.

Così immagino una delle mie tante denunce contro di lui. Mi isolerei ancora di più e terrei lo sguardo
basso perché nel giro di pochi minuti lo saprebbero tutti. E poi, tornato a casa la sera, mi guarderà
fisso negli occhi, con il suo sguardo gelido e sceglierà lui cosa fare di me. Io sono solo un oggetto
qualsiasi di cui può fare ciò che vuole e quando mi romperò, potrà buttarmi via. Tremo. La mia mano
si muove in maniera convulsa. Oh Signore, se tu mi prendessi con te ora, come sarebbe tutto più
semplice! Ti sarei grata. Lui non c’è. Nessuno lo incolperebbe. I medici accuserebbero il decesso
ad un malore improvviso, ma le pagine da scrivere sono ancora tante. La morte per me sarebbe una
spiaggia sicura su cui approdare. La mia consolazione. La liberazione. La fine di tutto.

-Ma non puoi ammazzarti da sola, stupida?

Aspetti che qualcuno lo faccia per te? Sciocca! Sai che non lo farà. Sei il suo giochino e funzioni
ancora, ti butterà solo quando sarai rotta, a pezzi, più di ora, quando non urlerai più perché ti sarai
abituata; finché la tua carne non sarà lacera resterai sua. Incatenata con catene invisibili che ti
stringono sempre di più e che ti legano a lui. Ti avvelenano. Ti soffocano. Ti feriscono. Ti fanno
precipitare in quel baratro senza fine nel quale puoi solo cadere senza toccare mai il fondo. Le pistole
sono qui in camera da letto, cariche. Devi solo premere il grilletto. Insomma. Dai. Un colpo alla testa
e finirà. Perché? Perché non ne hai il coraggio? Quelle catene stringono troppo forte e, alla fine di
ogni lotta mi lasciano sfinita sul pavimento. E’ arrivato. Non pensare più. Sai che non vuole che tu
pensi. Bloccati. Immobile. Chiudi gli occhi. Domattina sarà finita. Si è divertito e adesso dorme, ma
io…. Io mi chiedo come, come è possibile essere arrivati a questo, da quello che eravamo a quello
che siamo. E questa? Questa fede è il primo degli anelli di quelle catene. Non riesco a chiudere
occhio. Sarebbe bello andare un po’ sul balcone ad ascoltare il canto dei grilli.

– Ma lo sai che se la notte ti alzi senza dirglielo la mattina dopo ti picchia, no?

Allora, ora che dorme, posso pensare. Posso passare in rassegna i fili della mia inutile vita sperando
di trovare risposte. Che un presagio del futuro non si sia camuffato in quel vero primo appuntamento?

-L’avete visto il nuovo ragazzo? Giovanni si chiama. Dicono che il padre sia un notaio.
-Non capisco cosa ci troviate di così tanto esilarante, ragazze. E’ uno come mille.
– Tanto lo sappiamo già che cadrà ai tuoi piedi anche lui!
– Sei proprio divertente! Andiamo che altrimenti facciamo tardi.

Nei suoi primi giorni di scuola, noi ragazze facevamo questi discorsi. Ad esser sincera all’inizio non
è che ne fossi proprio innamorata; lo vedevo come un semplice amico e basta. Non so perché, ma
tutto si capovolse quando mi offrì un gelato. Avevo solo diciassette anni e, ho permesso che un
gelato mi rovinasse la vita per sempre. Faceva molto caldo e, mentre, tornavo da scuola lo incontrai,
per un tratto dovemmo percorrere lo stesso viale e, passati accanto ad una gelateria acquistammo
due coni riprendendo poi la strada. La scintilla che accese in me l’incendio scattò quando lo guardai
negli occhi. Quegli occhi nerissimi. Dio! Come bruciavo d’amore! Da quel momento il tempo
trascorse inesorabile e ci frequentammo sempre più spesso. Un giorno di novembre, un bruttissimo
tempo ci accompagnava, ma non pioveva. Dovevamo vederci ai giardini pubblici e avevo paura che
non venisse. Non vederlo mi faceva stare male. Ma arrivò. Lo aspettavo sotto una magnifica quercia,
si avvicinò a me ed io a lui. Le nostre bocche si sfiorarono timidamente, poi, si unirono. In quel
momento cominciò il diluvio dentro e fuori di me. Noi eravamo staccati dal mondo. L’unica cosa che
m’importava era fondermi con lui. Essere parte di lui per sempre. Tutto era perfetto. Ci amavamo.
Eravamo arrivati persino a convivere. E poi, dopo tanti anni, finalmente la proposta di matrimonio.
Le nozze, la luna di miele, il primo anno da sposati. Tutto meraviglioso, ma poi qualcosa cambiò. La
sera si ubriacava, si arrabbiava sempre con me e mi picchiava. Per colpa sua sono stata costretta
a lasciare il mio lavoro, ero una dottoressa, perché a suo dire, stavo a contatto con troppi uomini.
Per assecondarlo, mi rinchiusi in casa. Non uscivo quasi mai. La sera quando tornava, doveva
trovarmi in camera da letto, senza fiatare: dovevo stare muta mentre mi spogliava di tutto. A volte
qualche lamento mi scappava e, allora la sua furia imperversava su di me. Con violenza, come le
onde del mare in burrasca si infrangono sugli scogli. Mi sbatteva più volte con la testa contro il muro
e per nulla al mondo, l’indomani doveva ancora trovarne traccia, di quel sangue testimone. Se non
avessi preso quel gelato, ora, magari, avrei una vita con un marito che mi ama, un lavoro, dei figli.
Lui figli non ne vuole perché urlano, sporcano e non ti lasciano mai in pace. Ma… Non so. Mi sento
strana. Veramente, è da molti giorni che non sto bene. Vado dal medico col suo permesso, ovvio.
Coperta dai miei grandi occhiali scuri e sotto una spessa coltre di fondotinta. Bisogna stare bene
attenti affinché gli altri non vedano. Non capiscano. Di tutte le sfortune per la mia vita, mai e poi mai
ne avrei potuto immaginare una come questa.

Aspetto un bambino. Il treno che si ferma nella sua ultima stazione. Come farò a dirglielo? Sono
ancora lì, nell’anticamera. Mi sono appena lasciata alle spalle lo studio del dottore. Quel dottore,
quella scoperta, quella rivelazione. Incredula e scioccata resto ferma, impassibile e penso o forse
non penso. Sono e non sono.

-Signora mi scusi, si sente bene? Vuole un bicchiere d’acqua? Si sieda. E’ molto pallida!

A quelle parole, in quel momento, mi desto. Il torpore che mi ha assalito, mi lascia turbata e tremante
e la voce dell’assistente mi riporta in un attimo alla realtà.

-No grazie. Sto bene. E’ solo l’emozione per la bella notizia. E’ il primo figlio! Arrivederci.

Esco così da quello studio con i pensieri raggomitolati, come quando alla rinfusa si riordina una
stanza all’arrivare di un ospite inaspettato, cerco di fare spazio e chiarezza alle mie idee. La paura
mi accompagna. Dev’essere l’abitudine. Quando si è vissuto per tanti anni nell’ombra, la luce, dà
fastidio e spaventa. Oh, se spaventa! Mi avvio. Per la strada vedo i passanti. Una signora porta in
giro il cane. Il vecchietto legge il giornale. Quel gruppo di amiche si attarda davanti a una vetrina
discutendo su chissà quale abbinamento doni di più all’una o all’altra. E’ ora di pranzo.

-Prendiamo un aperitivo in quel bar, mentre, facciamo due chiacchiere!

Io lì ferma. Sudo e affanno. Di nuovo. Osservo e non vedo. Ma all’improvviso ecco. E’ lì davanti ai
miei occhi la risposta. Mi si palesa senza avvisare. Mi sbatte contro come un pallone lanciato da
quei bambini che giocano lì al parco.

-Dormi, dormi. Dormi, dormi piccolino della mamma.

…Nanana- nanana- nananana….
Scuoto il capo come per allontanare tutti e mi schiarisco la voce e i pensieri. E’ certo rauca la mia
voce, anche se non sto parlando. Lo sento che se aprissi bocca non riuscirei a farmi capire. Sono
bloccata nella mente e nel corpo. Guardo. Osservo. Cerco di sentire. Le orecchie mi rombano ancora,
ma vedo. Immagino. Penso. Anch’io. Come quella donna. La ninna nanna. Il bambino. Il mio
bambino. Lo aspetto. E’ qui dentro di me. E’ mio. E’ vivo. Io sono viva. Sono incinta e lui è con me.
Siamo insieme. Siamo in due. Non sono più sola, ma siamo una cosa sola. Rido. Urlo e corro in quel
parco ormai quasi deserto. All’angolo c’è una donnina che vende fiori. Mi avvicino, ne compro un
mazzo. Fiori di campo. Come piacciono a me. Semplici e raffinati. Li profumo e poi via!! Li lancio al
vento. Li lancio in aria. Mille colori si disperdono in quell’aria ricadendo giù senza far rumore. La
gente incredula mi guarda e mi giudica pazza. Ebbene sì. Sono pazza. Pazza di gioia e piena
d’amore. L’amore infinito che donerò a questo piccolo. Ma devo tornare, tornare a casa. Tornare
presto. Subito. Immediatamente. Lui non c’è. Rientra tardi. Io potrei… Posso. Devo. Ora. Salto sul
primo taxi che riesco a fermare e senza nemmeno salutare gli indico la strada.

-Mi porti subito a quest’indirizzo e mi raccomando, mi aspetti. Tornerò subito. Devo andare. Devo
partire.

Durante il breve tragitto, mille pensieri affollano la mia mente, ma uno solo si ferma fisso nel mio
cuore. Il mio piccolo. Il mio bambino.
Sono arrivata. Corro su per le scale. Apro la porta. Guardo. Lui non c’è. La macchina non l’ho vista
giù nel parcheggio. Prendo con me solo una cosa. Il mio attestato di laurea in medicina. I documenti
e quei quattro spiccioli che mi permette di avere li ho già con me. E va dunque, senza esitare.

-Andiamo, sono pronta. Alla stazione. Il mio bambino ed io dobbiamo prendere il treno.

 

A Sara
e a tutte le vittime
ed eroine della vita.