Primo nodo: Distanza/Vicinanza – Un filo di lana

Museo dell’arte moderna di New York, primavera 2010. Marina Abramovic, artista simbolo del linguaggio performativo, racconta così, nella sua autobiografia, uno dei suoi più intensi e straordinari lavori: The Artist is present: “Dovevo stare seduta su una sedia nell’atrio del Museo dell’arte moderna di New York, otto ore al giorno, dieci ore il venerdì, ogni giorno per tre mesi, senza interruzioni e senza muovermi. Senza poter bere, senza mangiare, andare in bagno, alzarmi per fare due passi, stirare le braccia.”

850.000 persone hanno visto quella performance e 1500 si sono sedute di fronte a lei per il tempo che volevano. L’artista restava con gli occhi bassi fino a che uno degli spettatori decideva di occupare la sedia vuota. A quel punto, Marina alzava lo sguardo e si concentrava completamente su quella persona. A quanti decidevano di partecipare all’azione, era chiesto di restare in silenzio e di non fare movimenti bruschi.

A differenza di numerose altre performance dell’Abramovic, al pubblico partecipante, viene chiesto di rispettare una “distanza” e di interagire solo con la presenza e lo sguardo. Di fronte agli occhi scuri, silenziosi e immobili di Marina, si sono viste le più disparate reazioni: riso, commozione, disagio, imbarazzo, evitamento, curiosità. Quando, inaspettatamente, a sedersi di fronte a lei è il suo ex compagno di arte e di vita, la sorpresa e la tempesta di emozioni che scuotono Marina sono visibili nella commozione dei suoi occhi, nell’espressione del suo volto e, infine, nel suo gesto di ricerca di un contatto fisico: Marina, per la prima e unica volta nei tre mesi della durata della perfomance, interrompe la sua immobilità e si ritrova mani nelle mani con Ulay. L’energia di questo incontro viene percepita chiaramente da tutto il pubblico presente nella sala.

Al di là di tutte le possibili critiche sulla body – art, sviluppatasi a partire dagli anni Sessanta, ciò che risulta interessante in The Artist is present e, in particolare, in questa performance nella performance dell’incontro a sorpresa tra Marina e Ulay, è la potenza dello sguardo e la forza espressiva e comunicativa del corpo. Moltissime persone di età e condizioni diverse si sono sentite raggiunte dallo sguardo di Marina e hanno messo in atto comportamenti diversi, ma tutte, in qualche modo, hanno dialogato con lei. Fino al dialogo più profondo, quello con Ulay, che ha generato un movimento e un contatto. Un dialogo senza parole, ma ugualmente intenso. Anzi, forse più intenso.

La distanza imposta da questo tempo complesso, la difficoltà ad usare il canale verbale dovuta all’uso obbligato della mascherina e alla paura che ci condiziona e ci allontana dagli altri, possono, forse, essere considerate come un’opportunità per riflettere sul valore della vicinanza, del gesto, del corpo. Non è forse autentico solo il gesto che corrisponde ad una realtà interiore?

Emblematico in questo senso è “il bacio di Giuda”: uno dei gesti più intimi e affettuosi che non è compiuto per dimostrare fiducia e amore, ma esclusivamente per tradire e affermare sé stessi. Il gesto e l’intenzione non sempre coincidono.

Il contatto delle mani tra Marina e Ulay corrispondeva ad un moto dell’anima, ad una realtà interiore capace di sussistere anche senza gesti e che nel gesto trova un’espressione, una conseguenza, una realizzazione, non una causa.  La distanza fisica, dunque, ci riconduce all’importanza della vicinanza emotiva: la dimensione emotiva vibrante, educata alla consapevolezza di sé, “sente” anche dietro uno schermo, anche nonostante la mascherina, perché riconosce il valore gnoseologico delle emozioni.

Immersi nella vicinanza – per le strade, nei negozi, nelle scuole, negli uffici, sui mezzi di trasporto, nei locali – compivamo gesti in modo rituale o obbligato e, forse, senza molta attenzione. La distanza, dunque, se sappiamo ascoltare, può donarci una prospettiva nuova su noi stessi e sulle nostre azioni.  Può ricordarci che un vero incontro con l’altro è possibile solo se riconosciamo lo spazio che ci separa come condizione necessaria di libertà e, quindi, come via di umanizzazione. La distanza, se sappiamo guardare, può aprirci altri orizzonti sugli altri, sulle cose, sul mondo. La distanza imposta potrà, forse, trasformarsi in una terapia, come suggerisce Franco Arminio ne La cura dello sguardo: “La cura che propongo io è la cura dello sguardo. Sono convinto che molte malattie entrino dagli occhi e dalle parole. Non siamo un luogo a sé stante, apparteniamo alla comunità di tutte le presenze”.

di Patrizia Ciccarella