Secondo nodo: Il tempo – Un filo di lana

Anche oggi è uno di quei giorni “vortice” in cui mi sembra di non saperle neppure contare le ore di cui avrei bisogno per arrivare a sera e per fare tutto ciò che vorrei fare, tutto ciò che dovrei fare. Sono le 15.00, mentre sistemo la cucina e già penso a tutto il lavoro per la lezione di domani, “Mamma…” e io, senza neppure ascoltare altro “No, Carola, ora non posso…Tra un quarto d’ora!”

Un quarto d’ora…solo quindici minuti…per me sono nulla, per mia figlia un’eternità.

Mi ritrovo a fare i conti con una bambina che non sa ancora leggere l’orologio e, quindi, non ha la percezione del tempo. Almeno così sembra. Ma…cos’è il tempo? Tempo dell’orologio: dai che facciamo tardi, sempre tardi, sempre correre… e non basta mai…Tempo delle coccole: quanto dura un abbraccio? Forse molto di più di una manciata di secondi…E poi, tempo delle lezioni, tempo delle riunioni, tempo di cottura della pasta, tempo della notte, tempo di una telefonata, tempo della spesa, tempo sospeso…tempo vuoto, tempo dell’attesa- questo tempo.

E mi avvicino a questo concetto a piccoli passi, leggeri, come quando, di notte, mi accosto al letto di mio figlio mentre dorme per lasciargli un silenzioso bacio sulla fronte. Vorrei non disturbarla questa idea, tanto semplice da farmi tremare, e tanto antica da attraversare tutta la storia del pensiero e della poesia, della scienza e della religione.

A cosa serve porsi certe domande?

Serve quanto un tramonto, una poesia, un’opera d’arte, il gioco di un bambino. A nulla di pratico o di urgente, direbbe qualcuno.

Eppure, non posso fare a meno di chiedermi: che cos’è il tempo? E io come voglio vivere questo tempo che ho, questo tempo nel quale sono immersa e che mi è stato dato senza averlo chiesto?

La domanda sul tempo è una delle domande di senso più importanti: mi torna in mente la suggestiva definizione di Platone nel Timeo: “Immagine mobile dell’eternità”, percezione del movimento, del continuo divenire, trasformazione e corruttibilità del reale di fronte all’Eternità, all’Iperuranio, immobile, infinito, perfetto. Risolto il problema del divenire, scacco a Parmenide, eppure… restava una dicotomia incolmabile, che Aristotele, suo allievo, proverà a risolvere ma della quale troviamo eco in tutta la storia della filosofia e sulla quale si innesterà il pensiero cristiano, con risvolti molto complessi. Oggi, tra tutte le possibilità di riflessione intorno a questa domanda, trovo molto interessante, oltre che emozionante e attuale, il percorso offerto da Lucilla Gianoni in Big Bang (2010): nella ricerca di senso che vuole indagare e rappresentare sul palco la domanda sull’origine e sulla fine dell’universo, il tempo è il terzo passo dopo la luce e il buio, è l’hegeliana sintesi tra eternità e finitezza.

Il tempo che inesorabilmente e necessariamente si intreccia con lo spazio nella scienza di Einstein che, con la teoria della relatività – studio sull’infinitamente grande, anticipa le teorie della meccanica quantistica – studio dell’infinitamente piccolo, nel Teatro di Shakespeare e, naturalmente, nella Divina Commedia e ci riporta al nostro fondamento primo: desiderare, ossia vivere nella costante ricerca delle stelle. L’Inferno di Dante si conclude con la parola stelle, e così pure il Purgatorio e il Paradiso: “…e quindi uscimmo a riveder le stelle”, “disposti a salire alle stelle”, “L’Amor che move il sole e le altre stelle”. La Gianoni si chiede: Perché Dante ci invita a guardare le stelle? Alzando lo sguardo al cielo stellato, forse, potremmo comprendere un po’ di più su noi stessi e sulle nostre vite.

Anche noi, come l’Universo, siamo fatti di luce e buio, di armonia e disordine, di musica e silenzio, di razionalità e passioni. Fra queste, la più terribile è la paura. Paura dell’Altro, paura degli altri, paura della guerra, paura del terremoto, paura di un attentato, paura dell’abbandono, paura di fallire, paura del giudizio degli altri, fino a quella terribile paura che ci accomuna tutti, oggi: la paura della malattia, della sofferenza, della morte. Paura di finire, paura del mistero.

Il tempo, se non lo viviamo solo come Chronos, ossia come il tempo dell’orologio, delle stagioni, delle cose da fare, degli anni che ci invecchiano, e, invece, scegliamo di viverlo anche come Kairòs, è luce che è passata per il buio e che, per questo, è di nuovo luce ma vestita di colore, trasformata, inverata da questo passaggio attraverso la negazione. “Tre cose ci sono rimaste del Paradiso: le stelle, i fiori e i bambini” così dice Dante. “Il Tempo è un bambino che gioca a dadi” dice Eraclito.

Quando siamo impegnati in un’attività che ci fa dimenticare l’orologio, quando facciamo ciò che si conforma alla nostra natura profonda, quando ci mettiamo in ascolto di noi stessi e degli altri, quando siamo attenti alle occasioni, seppure piccole, che il giorno ci offre gratuitamente, come al più piccolo dei viventi, quando siamo immersi nel presente, non solo per goderne in modo superficiale, ma seriamente e fiduciosamente, come un bambino che gioca, allora il tempo è kairòs, è un tempo pieno, propizio, un tempo di nuovo eterno come quello delle stelle, anche se lo incarniamo noi, nella nostra fragilità e finitezza. Tutta la vita in quel progetto, in quel riconoscimento, in quella fatica, in quel gesto, in quell’opera, in quel sorriso, in quel bacio. Lì la vita è più densa, più piena, più vicina all’eterno. E noi possiamo conciliare il tempo infinito dell’universo con il tempo finito della nostra vita.  E l’attesa di questo Natale può diventare l’attesa di una novità autentica, di una vita che si rinnova e non asfitticamente l’attesa spazientita, spaventata e spasmodica della fine di questa pandemia che “deve passare” perché possiamo tornare a fare delle nostre giornate dei vortici in cui ci sfioriamo senza toccarci veramente, in cui ci guardiamo senza vederci, in cui portiamo in giro i nostri corpi, senza sapere chi siamo veramente.

Kronos ci è dato. Kairòs è una scelta e ci chiede coraggio e fiducia, come una notte alcuni pastori verso una stella.

Di Patrizia Ciccarella