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LEGALITÀ Quando la lotta alla mafia è ostacolata dallo Stato stesso

Il magistrato Giovanni Falcone diceva “La mafia è un fenomeno umano, e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. A distanza di quasi trent’ anni dalla sua morte, la mafia si è ulteriormente rafforzata e non sembra accennare a segnali di decadimento che possano prevederne la conclusione. Perché avviene ciò? A cosa è servito il sacrificio di molti se non sembrano trovarsi soluzioni efficaci?

Non si può parlare di mafia soltanto come un insieme di organizzazioni che compiono attività illecite. Il discorso deve estendersi anche alla mentalità e ai legami ormai imprescindibili con certe istituzioni e imprese.

La mafia si è talmente integrata nella parte “legale” della società che contrastarla significa andare a sconvolgere un intero sistema insediato nelle fondamenta del nostro Paese.

Vi è una mentalità diffusa su più strati sociali in cui la mafia non è quasi più considerata un fenomeno da contrastare. Forse ciò avviene per paura, per tornaconti economici e politici o per semplice abitudine. In questo clima di timore e conflitto di interessi può apparire “normale” che un “martire dello Stato”, impegnato a contrastare la mafia, venga letto più come “elemento fastidioso” che come “eroe”. Quando questa pericolosa mentalità si infiltra negli strati politici, militari, giudiziari, comprendiamo bene come si arrivi a dedurre che lo Stato stesso possa essere il primo ostacolo nella lotta contro la mafia. Non bisogna ovviamente cadere nell’errore di fare di tutta l’erba un fascio, ma è giusto sottolineare che chi ha poteri decisionali, più o meno influenti, ha anche delle responsabilità non indifferenti e non dovrebbe dunque cedere alle tentazioni corruttive.

I “martiri dello Stato” hanno lottato contro tutto e tutti, arrivando al paradossale contrasto con le stesse istituzioni che hanno tentato strenuamente di difendere. Un chiaro esempio lo troviamo in Falcone e Borsellino. I due magistrati hanno dato un duro colpo alla mafia siciliana e ai suoi legami con le parti “legali” del Paese. Il maxi-processo avrebbe portato in carcere numerosi personaggi malavitosi e svelato i rapporti stato-mafia. Dopo la loro uccisione, sono stati glorificati, probabilmente dalle stesse persone che li hanno abbandonati in una lotta diventata ormai sterile.

Nelle scuole si parla del concetto di legalità, della mafia che va contrastata, delle generazioni future che devono essere i portavoce di una nuova società libera dallo “sporco” che infanga il Paese. Come può un ragazzo, che conosce almeno in parte le figure di Dalla Chiesa, Impastato, Piersanti Mattarella, gli stessi Falcone e Borsellino, pensare di non avere paura andando contro un nemico invisibile, pronto a colpire in qualsiasi momento? Come può applicare i famosi concetti di legalità se gli esempi da seguire non sono sufficientemente adeguati? Come può muoversi nel proprio piccolo, se la corruzione risulta così radicata da non poter essere  quasi più contrastata?

A tutti questi interrogativi è lo stesso Stato che deve rispondere con delle certezze. Il binomio legale/illegale non dovrebbe assumere le sembianze di un mostro invincibile per non arrivare a chiederci: siamo veramente intenzionati a contrastare questo mostro?

Federico Di Lello