Condanne a morte Usa: due giustiziati in 24 ore

Di Beatrice Folini

 Venerdì 11 dicembre il camionista 56enne della Louisiana Alfred Bourgeois è stato ucciso con un’iniezione letale al Federal Correctional Center in Terre Haute, Indiana.  L’uomo aveva ricevuto la condanna a morte nel 2004 per aver torturato e ucciso la figlia di due anni, durante una consegna alla base militare di Corpus Christi in Texas: a causa della sua collocazione, il reato era stato giudicato di tipo federale. Gli avvocati hanno inutilmente provato ad evitare l’esecuzione, dimostrando che Bourgeois fosse colpito da gravi disabilità mentali e che il suo quoziente intellettivo fosse ben inferiore alla media.

Il giorno precedente, la stessa sorte era capitata a Brandon Bernard, un quarantenne afroamericano, condannato a morte per il coinvolgimento in un duplice omicidio nel 1999, compiuto da un gruppo di cinque ragazzi. Brandon si era occupato di bruciare l’auto in cui erano salite le vittime, che secondo la difesa erano già morte prima dell’incendio. All’epoca aveva solo 18 anni. Nonostante la giovane età e la buona condotta tenuta in carcere, la pena non è mai stata commutata in ergastolo, come chiesto dai suoi legali. Inutile è stata anche la forte campagna di sensibilizzazione sostenuta da numerose celebrità, tra cui Kim Kardashian.

Entro il 20 gennaio 2021, sono previste altre tre esecuzioni, tra cui quella di Lisa Montgomery, la prima donna giustiziata dal governo federale dopo 67 anni. Il mandato di Trump detiene un macabro record: è infatti quello con più condanne a morte federali (comprese quelle che verranno, 13), ripristinate dallo stesso presidente dopo un’interruzione di 17 anni. Il dato che però sconvolge maggiormente è un altro: per la prima volta nella storia degli Usa, infatti, il governo in un anno ha giustiziato più persone che i singoli stati federali (sette). 

Attualmente, la pena di morte è in vigore in più della metà degli stati Usa e il neoeletto Biden ha affermato che si impegnerà per eliminarla a livello federale. Secondo il sondaggio Gallup di ottobre 2020, il 55% degli americani è a favore della pena di morte per condanna di omicidio: l’anno precedente era il 56%. Il 43% è contrario, uno dei numeri più alti da mezzo secolo e il 2% è in bilico.    Oggi sembra assurdo che un paese come gli Stati Uniti d’America, che nella dichiarazione di Indipendenza del 1776 si prometteva garante di tre diritti fondamentali – ovvero quelli della libertà, della felicità e della vita – non sia ancora in grado di assicurare quest’ultimo, il più importante, ai propri cittadini, soprattutto a quelli appartenenti alla comunità afroamericana. Dal 1977, infatti, anno di reintroduzione della pena capitale, ci sono state quasi 300 esecuzioni di afroamericani per l’omicidio di un bianco e solo 21 di bianchi che hanno ucciso un afroamericano. Al momento, invece, nel braccio della morte federale ci sono 23 afroamericani, 21 bianchi, sette ispanici, un asiatico ed una donna bianca.  Un segno di come il problema della discriminazione etnica esista ancora all’interno della società statunitense e di come la pena di morte sia stata talvolta utilizzata dai bianchi per opprimere la comunità afroamericana.