Quarto nodo: Il corpo è l’anima – Un filo di lana

“Allora, mamma, le anime hanno i corpi, giusto?” Simone, 10 anni.

“Che strana domanda!” ho pensato alla fine della visione dell’ultimo film Disney, una sera in famiglia durante le vacanze di Natale. Di solito diciamo che è il corpo che ha l’anima. Il corpo, soggetto; ha: voce del verbo avere, così pieno di possesso e di pienezza… (almeno così può sembrare!); l’anima: complemento oggetto.

E che cos’è questa anima? Esiste veramente e come esiste? Nella domanda di mio figlio, però, come nel film, è contenuta un’altra idea: è l’anima che si appropria di un corpo e attraverso questo riesce alla fine a trovare la sua scintilla e la fiducia per la vita. Solo attraverso il corpo può gustare una pizza, ascoltare una canzone, ammirare una foglia d’autunno, giocare con il vento e…ridere! L’anima possiede il corpo, dice Aristotele, come principio di movimento e divenire, come atto primo di un essere vivente. L’anima, quindi, informa il corpo che vive. E il corpo vive attraverso l’anima. Il corpo senza anima è un corpo inerte, immobile, un fantoccio. Un cadavere o una macchina.

La domanda più interessante che possiamo porci oggi è: qual è la differenza tra un corpo animato e un automa? Questo è uno degli interrogativi che Maurizio Ferraris, professore di Filosofia Teoretica a Torino, si pone nella sua Lectio Magistralis al Festival della Filosofia 2020 – Macchine. La risposta è che un corpo animato ha la heideggeriana consapevolezza di essere-per-la-morte. E questa, lungi dall’essere una fragilità, è, invece, una forza perché in essa stanno, a ben vedere, la grandezza dell’uomo, la sua consapevolezza e la sua intenzionalità.

In Ecce Homo, Lucilla Gianoni, ripercorre la storia evolutiva dell’uomo per rispondere alla domanda Chi è l’uomo? Interroga la Scienza e la tradizione teologica e mitica, e, alla fine, trova che l’uomo è pienamente sé stesso quando, passando dall’Homo sapiens diventa Homo Felix, cioè uomo capace di trascendere il senso della sua stessa esistenza, rendendola un’esperienza di scoperta e condivisione con gli altri.

Anche la morte, allora, avrà senso perché non sarà semplicemente subita, come per gli altri esseri viventi, non sarà la mera fine della vita, ma il suo compimento. L’uomo che ha vissuto da Homo Felix, sarà colui che avrà informato della vita la sua stessa morte, nella relazione con il mondo e con gli altri. Appare molto povera, dunque, la prospettiva del transumanesimo, che intende invece sfuggire alla fine, con l’aiuto della tecnologia e della scienza, intese, in tal modo, come spaventapasseri e non come avventure di conoscenza, autoconoscenza e condivisione.

Non è possibile vivere in modo autentico un’esperienza, senza che questa passi per il corpo. Non è possibile entrare in relazione con gli altri senza il corpo. Anche se il corpo, informato dall’anima, è fragile e destinato a finire.

Oggi, queste affermazioni appaiono molto problematiche innanzitutto alla luce dello sviluppo della dimensione virtuale che si è aggiunta a quella reale e a quella immaginaria, rivoluzionando questa tradizionale contrapposizione. E risultano ancora più problematiche in questo tempo sospeso in cui stiamo vivendo che, come dice Massimo Recalcati, è attraversato dall’angoscia collettiva e individuale dovute al trauma di questa “pandemia”. Temiamo per la nostra sofferenza, per la nostra fine e per quella degli altri e siamo proiettati ansiosamente verso un futuro incerto. Una delle soluzioni possibili, indicate da Recalcati, è offrire il dono della cura, cioè restare vicini a quelli che soffrono. Ma come possiamo restare vicini, se la vicinanza è minaccia terribile?

I vantaggi offerti dalla tecnologia ci consentono di proseguire, in modo apparentemente uguale, esperienze di lavoro, formazione, forse anche di aggregazione. Possiamo visitare musei e gallerie d’arte virtuali, possiamo assistere ad un concerto, ad una rappresentazione teatrale, acquistare un libro, un abito, un oggetto qualsiasi che ci viene recapitato direttamente a casa. Eppure, sappiamo molto bene che è molto diverso guadare un amico negli occhi, stringerlo in un abbraccio, ammirare un tramonto col vento sul viso, ascoltare la musica in un teatro dove si realizza la catarsi del cuore, quella magia che viene dal partecipare con l’artista e con gli altri, e non solo dall’assistere, soli, dietro ad uno schermo. Sappiamo bene che entrare corporalmente in relazione con gli altri vuol dire gioire, ma anche rischiare e fallire, vuol dire imparare e crescere. Attraverso il corpo passano le emozioni che sono necessarie per strutturare l’identità personale, il riconoscimento di altri “io” con i quali entrare in relazione, dai quali essere riconosciuto e dai quali differenziarsi. Le sensazioni sono alla base delle emozioni, e queste risultano necessarie per attivare processi di apprendimento, costruzioni di senso e sentimento, capacità immaginative per la ricerca di nuovi scenari e soluzioni possibili ed umanizzanti ai problemi.

Nel suo “Elogio della vita dal vivo”, Stefano Massini cita le parole di Cesare Pavese alla sua amata Milena, che non aveva avuto il coraggio di amare realmente ma solo attraverso la scrittura: “In amore conta il corpo e il sangue, conta la stretta, la vita e noi dobbiamo avere giudizio, ragionare, mentre la ragione non conta dinnanzi alla vita”. Vivere, amare, essere corpo e sangue sono dunque per Pavese la stessa cosa. Non si può solo scrivere, non si può solo social. Fu solamente dopo la morte del marito che la moglie dello scrittore Anton Cechov, scrive per lui delle lettere.

Come possiamo restare vicini? Se abbiamo vissuto con il corpo, possiamo incontrarci in rete. E allora benedetta questa tecnologia che ci consente di accorciare le distanze. Può essere costruttivamente vissuta, solo quella relazione con gli altri e prima di tutto con sé stessi che è stata vissuta dal vivo e che non dimentica la differenza tra fini e strumenti, tra reale e virtuale. Dal vivo è un’esperienza non sostituibile. Il virtuale è un canale di comunicazione, importante e necessario, oggi. Ma la relazione è vita e la vita passa per il corpo. E questo tempo dovrà essere preziosa memoria e narrazione.

di Patrizia Ciccarella