Viaggio nel caos dell’astrofisica con Gisella De Rosa

Gisella De Rosa, astrofisica professionista e manager vastese presso lo Space Telescope Science Institute (STScI), nel pomeriggio del 28 gennaio, ci ha mostrato il “caos” che caratterizza la sua vita. Abbiamo quindi colto l’occasione per porle alcune domande.

Quando, nel suo percorso di studi,  ha capito di voler occuparsi di scienza e astrofisica?

Quando ho deciso di diventare un’astronoma ero piccolissima, avevo circa 8/9 anni. Non so esattamente il perché di questa mia scelta. Dopo aver letto una di quelle riviste scientifiche per ragazzi, come Focus, sui buchi neri, ne rimasi immediatamente affascinata. Fu così che probabilmente scelsi di studiare astronomia. Ricordo ancora mia madre che, giunta al fatidico momento della scelta del liceo, continuava a dirmi di andare al liceo classico. Io invece mi ero impuntata, perché ormai avevo già deciso il mio percorso di studi. Sapevo già che volevo fare il liceo scientifico, sapevo già che volevo studiare fisica. Frequentai quindi l’indirizzo sperimentale PNI, per poi dedicarmi, dopo la laurea, allo studio di quei buchi neri che mi avevano tanto ammaliata.

Come sono le condizioni del mondo della ricerca all’estero rispetto alla situazione italiana?

Sfortunatamente le condizioni al di fuori dell’Italia sono molto più favorevoli. Se non fosse così, vivremmo tutti lì. Il mio lavoro in particolare non avrebbe sbocchi, se non in accademia. Quando si diventa astronomi, vi sono due percorsi principali: da un lato si può decidere di seguire l’ambito accademico, studiando e facendo ricerca quindi come professore universitario. Dall’altro troviamo un percorso di ricerca più tecnico, che è quello scelto da me, dove l’astronomo svolge il ruolo di supporto a osservatori o missioni spaziali. Purtroppo, gli istituti italiani in cui è possibile fare ciò sono davvero molto pochi. Inutile dire come il nostro lavoro all’estero è anche retribuito più adeguatamente. È stata proprio questa una delle cause principali del mio spostamento negli USA.

In generale, trovare un posto nel mondo della ricerca è difficile, in quanto il numero di impieghi è limitato rispetto al numero di dottorati. Per questo è un campo molto competitivo. Ciononostante, le occasioni non mancano, soprattutto in Nord Europa e in America, dove le condizioni sono nettamente migliori rispetto a quelle presenti in Italia.

Quali sono le difficoltà incontrate durante lo sviluppo di una tecnologia d’avanguardia come il Roman Telescope?

Le difficoltà sono all’ordine del giorno. La questione è che stiamo cercando di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima. Non abbiamo un’altra missione spaziale che abbia mai cercato di raccogliere così tanti dati. Stiamo inventando qualcosa di totalmente nuovo. Ed è lo stesso motivo per cui la realizzazione del James Webb Space Telescope ha subito innumerevoli ritardi. Perché l’inaugurazione viene di volta in volta posticipata? Perché si sviluppano nuove tecnologie ogni giorno. E ovviamente dopo aver lanciato il telescopio c’è una sola possibilità per poterlo aprire, senza poterlo modificare. O la va o la spacca. Prima del lancio è quindi necessario essere sicuri che esso sia stato costruito a regola d’arte. 

Nella mia vita, invasa dalla realizzazione del Roman, incontro nell’ordine una decina di problemi quotidianamente. I problemi sono dei più disparati: dalla gestione di dati massicci, alla distribuzione di tali dati alla comunità scientifica. Ed essendo parte del mio lavoro di manager, spesso i miei problemi sono gli stessi del mio personale. Problemi che, con la pandemia, si sono amplificati.

É stato complicato affermarsi nel campo della ricerca scientifica come donna e anche come madre?

Io sono molto fortunata. Fortunatamente lavoro in un istituto che annovera tra i suoi valori l’inclusione. Non solo rispetta, ma cerca di valorizzare le diversità di qualsiasi tipo. Ad esempio, abbiamo una componente della rappresentanza LGBTQ+ molto importante all’interno del STScI. E la presenza di donne nell’istituto è nella media, intorno al 25%. Tuttavia, nonostante la mia condizione privilegiata, la rappresentanza del mondo femminile nella scienza è ancora molto limitata. Sono presenti delle barriere molto pesanti, soprattutto nelle accademie, nei confronti di chi è diverso dallo stereotipo del ricercatore. Se da piccola mi avessero chiesto di disegnare uno scienziato, avrei quasi sicuramente rappresentato Einstein: uomo bianco, con i capelli scompigliati, in camice. Questo è uno dei tanti di esempi di bias inconsci, molto comuni nella scienza, che il nostro cervello usa per adattare chiunque ci sia davanti a quello stereotipo. Se sono convinta che uno scienziato debba essere un uomo di mezza età, quando mi trovo di fronte una giovane donna, immediatamente il cervello dubita delle informazioni che riceve. I bias sono fondamentali, perché ci permettono di filtrare l’enorme quantità di informazioni che tratteniamo. Tuttavia, questi limitano profondamente la nostra capacità di aprirci al mondo. L’unico modo per migliorare la situazione è parlarne. Essere consapevoli dei propri bias ci permette di superarli

Quale insegnamento ha acquisito dall’esplorazione del cosmo?

C’è tanto che non conosciamo. E ciò è la cosa più affascinante. Tutto ciò che conosciamo e riteniamo realtà rappresenta una piccolissima percentuale della materia dell’universo. Vuol dire che c’è ancora molto da esplorare e scoprire.

Attraverso delle ricerche, abbiamo scoperto che si occupa anche dello studio di buchi neri. A che punto si trova lo studio di tali fenomeni?

Stiamo ancora cercando di capire come si formano i buchi neri supermassicci. Sappiamo che la maggior parte delle galassie presenta uno di questi fenomeni al suo interno. Anche nella Via Lattea è presente, in uno stato dormiente. Dagli studi risulta evidente come la nascita e lo sviluppo di questi buchi neri ha a che fare con l’espansione della galassia. E quindi, per comprendere a pieno le galassie, è necessario comprendere i buchi neri supermassicci. È però possibile studiare questo fenomeno attraverso lo spazio-tempo. Questi studi ci hanno permesso di formulare delle teorie di formazione, ma non ancora possediamo i dati che confermano queste teorie. JWST e il Roman sicuramente ci verranno in aiuto per quanto riguarda la raccolta dati. 

Foto di Giuseppe Colameo

Se un genio della lampada Le offrisse la risposta ad un singolo quesito cosa gli chiederebbe?

C’è vita nell’aldilà? 

Questa sarebbe la mia domanda. Alla fine noi scienziati, nonostante siamo portati ad avere una visione materialistica, rimaniamo comunque molto attratti da qualche forma di spiritualità. Ciò che ci muove, anche in questo caso, è la curiosità dell’ignoto. 

di Giuseppe Colameo