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Il virus della disuguaglianza: siamo uguali rispetto alla malattia e alla cura?

Svegliarsi presto la mattina per andare a lavorare, salire sugli affollatissimi mezzi pubblici, correre per non arrivare in ritardo, trattenersi fuori ad un bar con gli amici, mangiare velocemente in piedi prima di riprendere il frenetico itinerario urbano. È bastato un attimo, una firma, il Dpcm dell’11 marzo 2020, per separarci bruscamente da quella stressante quotidianità di cui oggi proviamo tanta nostalgia. È successo tutto così in fretta ed impreparati (come direbbe Verga), siamo stati vinti dalla velocità inarrestabile con la quale il Covid-19 ha travolto chiunque abbia incontrato sul suo cammino. Dopo aver aggiunto al lessico quotidiano parole come: Dpcm, screening, lockdown; aver fatto con la propria famiglia pane, pasta o pizza; essere stati lontani da amici o parenti ed aver concluso un anno scolastico attraverso la didattica a distanza, il 2020 è finito e con il nuovo anno sono arrivati anche in Italia i primi vaccini. La curva dei contagi è ancora alta ma ci sono le prime persone che sviluppano anticorpi (assistenti sanitari e anziani) e dunque oggi possiamo permetterci di voltare per un momento lo sguardo al passato e valutare come è stata gestita la pandemia dal
punto di vista sanitario in varie parti del mondo.
Durante la pandemia sono stati adottati molteplici provvedimenti che hanno ridotto, fino quasi ad annullare, diritti e libertà garantiti dalla Costituzione. Abbiamo rinunciato a tante cose stando a casa ma tutto ciò probabilmente si sarebbe potuto evitare. Il piano pandemico italiano (piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale) non è stato aggiornato per un decennio e così, quando il Coronavirus, che ci sembrava inizialmente tanto lontano, è entrato nella nostra penisola, il governo ed il Ministero della Salute si sono trovati a gestire una situazione a cui non erano preparati. Il diritto alla salute, che dovrebbe essere tutelato per tutti i cittadini, è stato invece trascurato e ne abbiamo dovuto pagare le conseguenze. Proprio la nostra carta costituzionale recita all’art.32:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”
Se però dal “muro” dei nostri diritti si elimina un mattone che è alla base di questo (il diritto alla salute), il muro si sgretola e prima o poi crolla. Così è stato, si è abbassata la guardia ed abbiamo dovuto mettere da parte diritti che consideravamo inviolabili. Ci siamo
trovati in una situazione nuova, i contagi crescevano giorno dopo giorno mentre medici ed infermieri lottavano per far cambiare verso alla curva epidemiologica che continuava a salire. La precarietà della nostra vita è venuta a galla e ci ha fatto aprire gli occhi a volte per piangere, altre per affrontare la realtà. Lo scenario è stato lo stesso per mesi: chi in smart-working e chi senza lavoro, chi a casa con la propria famiglia e chi in strada senza casa o parenti, chi studiava e chi non aveva i mezzi per farlo, chi si poteva permettere un tampone e chi invece doveva andare all’ASL rischiando di contagiare o essere infettato. Nel frattempo gli ospedali si riempivano sempre di più, le terapie intensive erano piene e si andava alla caccia del paziente zero. Il divario tra ricchi e poveri, paesi sviluppati e arretrati stava creando una voragine all’interno della società. C’è chi prima del coprifuoco corre tra le strade per tornare a
casa e persone la cui casa è la strada. Il Coronavirus continuava a strappare vite ma non più solo alle persone più fragili ma tutte le fasce d’età erano ugualmente a rischio. La malattia non fa distinzioni tra cittadini e tutti vengono contagiati indipendentemente da “sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”. Il crescente divario nella società ha fatto si che ognuno, a seconda delle proprie possibilità, ha affrontato la pandemia con cure diverse: c’è chi si è sottoposto ad un vaccino antinfluenzale o fatto uso di integratori particolari e chi, invece, è riuscito a stento a comprare un pacco di mascherine; chi ha affrontato la quarantena in lussuose ville con tutti i comfort necessari, rendendo un periodo di isolamento un momento di relax e chi, invece, è stato rinchiuso in un Covid-hospital lontano dalla propria famiglia o peggio ancora  chi, pur positivo al tampone, è dovuto rimanere in casa, a contatto con i propri cari, non avendo altro posto dove andare. Basti pensare che l’uscente presidente americano, il miliardario Donald Trump, durante la pandemia (ma soprattutto durante la sua campagna elettorale) è stato contagiato dal Covid-19 e si è sottoposto ad una cura di cui fino ad ora non avevamo mai sentito parlare: gli è stata fornita una dose sostanziosa di anticorpi monoclonali, che bloccano il virus quando sta entrando nel sangue e quindi non riesce a provocare la malattia. Solo che questa medicina non è per tutti. È una cura tanto efficace quanto costosa ed è venuta a Trump circa un milione di euro. In un periodo tanto difficile per il mondo, usando una cura tanto esclusiva, Trump ha dato il peggior esempio possibile pur di guarire in una settimana e portare avanti la propria candidatura. Mentre i miliardari del mondo vivono questo periodo con leggerezza, la disoccupazione aumenta e le persone sul lastrico vivono alla giornata, sul filo di un rasoio. Oltre ai disoccupati ad aumentare sono anche i senza fissa dimora, persone che non possono contare sul medico di base, accedere al sistema sanitario, né permettersi i soldi per comperare una mascherina, figuriamoci per sottoporsi ad un tampone. È recente la notizia dei dieci senzatetto trovati morti di freddo durante le feste natalizie a Roma ma anche a Milano, Genova, Napoli; episodi che non dovrebbero ripetersi e che hanno mobilitato molti medici che, nelle festività, si sono messi a disposizione dei più fragili, parte nascosta e spesso ignorata della nostra società.

Le grandi potenze mondiali, nel frattempo, finanziavano le case farmaceutiche (Pfizer-Biontech, Moderna, AstraZeneca) per la sperimentazione dei vaccini  fin quando poi non è arrivato il primo V-day (giorno del vaccino), l’8 febbraio 2020, nel Regno Unito. Per noi occidentali è arrivato, dunque, il momento che stavamo aspettando da mesi ed è iniziata così un’intensa campagna vaccinale sotto gli occhi stremati di tutti quei Paesi poveri che non hanno ancora le cure necessarie per far fronte alla pandemia. Ci si apre così un nuovo scenario: quello dei 67 Paesi poveri nel mondo dove verrà vaccinato solo il 10% degli abitanti. Ciò che emerge da un rapporto di Amnesty International è che oltre la metà delle cure principali è stata già acquistata dai Paesi più ricchi, dove vive meno di un sesto della popolazione mondiale. Il 96% delle dosi del vaccino Pfizer-Biontech sono state acquistate dall’Occidente, mentre il vaccino Moderna andrà ai governi che saranno nelle condizioni di acquistarlo. Prezzi troppo alti e problemi di distribuzione del vaccino (a causa delle basse temperature di conservazione), rendono impossibile per i Paesi a basso reddito accedere alle cure per fermare i danni irreparabili che la pandemia sta infliggendo a questi territori, di per se instabili. Dati  allarmanti provengono da molti altri Paesi in via di sviluppo, sopratutto nel continente africano: il Malawi, il Burundi, il Niger, la Repubblica Centroafricana, la Repubblica Democratica del Congo. Paesi che non hanno adottato alcun lockdown, poiché in questi contesti le misure di contenimento rischiano di arrecare conseguenze devastanti, forse peggiori della pandemia stessa.

Il rischio concreto è che per alcuni non lavorare un giorno, porti drammaticamente a non aver nulla da mangiare e, di conseguenza, vi è il rischio che il lockdown non possa essere rispettato dalle persone, che si sposterebbero comunque per soddisfare le proprie necessità rischiando di contagiarsi e di mettere in ginocchio il precario sistema sanitario nazionale. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, nel mondo una persona su sei vive negli slums, nelle villas miserias, nelle favelas, nelle bidonville, nelle shanty towns, nelle township, in quelle baraccopoli in cui chiamare vita la propria esistenza a volte può essere estremamente difficile. Qui, le persone versano in condizioni igienico-sanitarie intollerabili, si convive in spazi ristretti ed affollati dove l’aria fatica a circolare, spesso si è privi di acqua potabile e per guadagnarsi da vivere le persone vengono sfruttate fino alla morte per la troppa fatica. Una vita di stenti dove si vive alla giornata e si è più esposti a contrarre varie forme di infezioni dovute all’inquinamento dell’acqua, al sovraffollamento, alle condizioni igieniche, ai liquami e ai rifiuti che fanno parte delle baraccopoli. Un miliardo di persone nel mondo vivono in queste condizioni  indecorose. Non è difficile immaginare che questi luoghi possano diventare vasti e pericolosi focolai di Covid-19.

È qui che il dramma può arrivare a toccare punte inimmaginabili. Nelle baraccopoli, infatti, rimanere a casa non garantisce la diminuzione del contagio. L’alta densità abitativa non permette di adottare concrete misure di isolamento o quarantena, lasciando di conseguenza la pandemia diffondersi e facendo collassare intere nazioni.

Non tutti, quindi, hanno la possibilità di affrontare la pandemia con gli stessi strumenti e mentre in alcuni Paesi vi è la possibilità di usufruire di covid-hospitals o di cure privilegiate, gli abitanti delle baraccopoli sono lasciati a loro stessi, ai margini della società, in un contesto critico dove lo Stato continua ad essere il grande assente. Come in Brasile, secondo al mondo per numero di contagi, dove nelle favelas si contano più di due milioni di casi. Nelle favelas la gente vive ammassata, in case piccole, umide e poco areate, dove le malattie respiratorie e polmonari sono da sempre endemiche. A ciò si aggiunge la costante violazione dei diritti fondamentali della popolazione che risiede in queste aree, la quale non ha sempre accesso né a beni di prima necessità né ad uno stile di vita dignitoso. La rapida propagazione del Covid-19 in tali luoghi è inevitabile, i favelados non restano mai nelle proprie anguste abitazioni ma vivono in strada basandosi su un’economia di sussistenza che non può essere ridotta ovviamente allo smart working. I dati che emergono nelle favelas sono sconcertanti e mostrano chiaramente l’incidenza delle diseguaglianze socio-economiche sull’efficacia delle azioni di contrasto alla diffusione del virus: basti pensare che lo Stato di Rio de Janeiro conta 17 milioni di abitanti e dispone di 10.000 posti in terapia intensiva ma solo il 30% di questi posti sono localizzati in ospedali pubblici, dove il 70% della popolazione di Rio de Janeiro è solita andare, poiché sprovvista di assicurazione sanitaria. Per comprendere l’incapacità del governo di intervenire nelle favelas e nelle periferie bisogna immaginare che le milizie brasiliane (gruppi armati che non rispondono ad alcuna autorità  riconosciuta) ed i narcotrafficanti sono stati gli unici in grado di imporre il coprifuoco in tali zone sottosviluppate. Negli ultimi mesi, in queste zone a rischio qualcosa sembra muoversi grazie all’umanità della popolazione. Nelle favelas brasiliane un’associazione di donne fornisce oltre sei mila pasti gratuiti al giorno in modo da evitare lo spostamento degli abitanti. Una situazione ben peggiore la si ritrova negli slums di Mumbai e nelle megalopoli dell’India, primo Paese al mondo per velocità di diffusione del virus, dove si registrano oltre tre milioni di casi di Covid-19. Di questi, due casi su tre sono a Mumbai, città dove al fianco di moderni palazzi di lusso convive una delle megalopoli più grandi al mondo. Negli slums non è possibile garantire il distanziamento o il lavaggio frequente delle mani e l’oltre un miliardo di
persone che vive in queste abitazioni improvvisate non ha accesso a ospedali, cliniche e assistenza sanitaria.

In una nazione dove la tubercolosi e altre malattie (oggi sconfitte in Occidente) continuano a causare migliaia di morti, il Coronavirus ha ulteriormente peggiorato la situazione diffondendosi tra quelle persone dimenticate dal governo che vivono nelle baraccopoli. La stessa situazione si presenta in varie altre città anche tra quelle più sviluppate come Atene, Madrid, Buenos Aires ed anche in Italia dove da Foggia a Brescia oltre 50 mila italiani vivono in abitazioni di fortuna tra amianto, topi e rassegnazione. A Messina le abitazioni di fortuna risalgono ad oltre un secolo fa, quando il terremoto del 1908 rase al suolo la città. Qui l’emergenza è diventata quotidianità.

Anche  qui vive un’umanità sconfitta e spesso rassegnata all’emarginazione. Donne, uomini, bambini, anziani vittime della crisi economica o di circostanze avverse che in questo periodo rischiano di perdere l’unica cosa che gli è rimasta: la vita. Non possiamo aspettare che si raggiunga la famosa “immunità di gregge”, lasciando al Coronavirus di circolare nel mondo, è necessario agire adesso ed in fretta!
Lorenzo Iodice, III A