Il conflitto – settimo nodo

 

“…avevamo di fronte un nemico come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale”.

I. Calvino, La formica argentina

 Quando ero piccola, amavo molto osservare gli insetti, in particolare mi incuriosivano le formiche: trascorrevo ore seduta a guardarle e, come il protagonista de La formica argentina, “più guardavo e più scoprivo nuove direzioni nelle quali le formiche andavano e venivano” ma, a differenza di quello e degli altri personaggi del racconto di Calvino, potevo avere su quelle  “minuscole e impalpabili” lo sguardo tranquillo della piccola entomologa e decidere ogni volta che volevo di lasciarle alla loro operosità: le formiche erano fuori in giardino e non costituivano una minaccia per la cucina di mia nonna che non era affatto “informicata” come la casa sulla Riviera di Ponente ligure, ma profumava di ciambelle e abbracci.  Come me alla loro età, anche i miei figli, un giorno d’estate, hanno osservato meravigliati un filo di formiche che si erano organizzate per trasportare quella che per loro doveva essere un’enorme scorta di cibo, operazione che, evidentemente, richiedeva uno sforzo collettivo e coordinato. Gli animali collaborano. Gli etologi ci insegnano che una delle capacità più interessanti degli animali è quella di saper cooperare e in questa capacità si esprime una grande forza di sopravvivenza. Tra le specie che maggiormente hanno sviluppato questa caratteristica, troviamo formiche, termiti e api. In queste ultime, poi, troviamo quella che Enrico Alleva, già Presidente della Società italiana di Etologia, definisce “meraviglia di altruismo”: con le loro danze, le api informano, comunicano, e, di fronte a una minaccia per l’alveare, pungono e…muoiono. Pungono, anche se questo vuol dire morire. Quale gesto più eroico e generoso di questo? Secondo alcuni etologi tedeschi, le api hanno una “mente”, ipotesi questa, sulla quale non si trova d’accordo Alleva il quale, però sostiene che è possibile rintracciare un principio di altruismo in tutte le specie viventi, ripercorrendo a ritroso la storia evolutiva, fino ai dinosauri.

E noi uomini?

Non siamo più spesso protagonisti o vittime di situazioni conflittuali, nelle quali conosciamo negazione, contraddizione, isolamento, concorrenza spietata, invidia e risentimento? Non ci troviamo frequentemente a vivere stati di frustrazione, rabbia, fallimenti e desiderio di rivincita che, spesso, anche nel caso in cui è possibile realizzarla, ci lascia ancora insoddisfatti o più vuoti di prima? – e più soli.

Sin dalle origini dello sviluppo del pensiero occidentale, il conflitto è stato riconosciuto come categoria filosofica fondamentale nella teoresi e nella gnoseologia, nonché come dimensione etica e psicologica caratteristica della relazione con sé stessi, con gli altri e con il mondo.  “Conflitto di tutte le cose è padre, di tutte è re”, così Eraclito di Efeso, nel VI sec. a. C. esprime un’idea centrale, ripresa e sviluppata nel pensiero, nell’arte e nelle scienze, fino all’età moderna e contemporanea.

Le analisi condotte da pensatori autorevoli come R. Bodei, Z. Baumann, M. Recalcati, E. Pulcini, C. Sini, S. Zamagni, e altri al Festival della Filosofia 2016 – Agonismo, ripartono dalla lezione di Hobbes, secondo la quale l’uomo tende per natura – ossia per necessità – alla propria conservazione, per cui lo stato naturale delle cose sarebbe quello di una guerra di tutti contro tutti e gli uomini sarebbero, gli uni per gli altri, una minaccia costante: homo homini lupus –  il pungiglione è talmente piccolo, che diventa trascurabile. Unica soluzione a questa condizione – e al terrore costante e alla distruzione che essa genererebbe – è il Leviatano: cedere un bel pezzo di libertà in cambio di sicurezza, deporre le armi ai piedi del “monstrum”, rinunciare alla possibilità di esercitare la forza individuale e traferirla allo Stato.

Ma cosa è successo in questi 400 anni che ci separano dalla lezione di Hobbes? Molte le vicissitudini e le forme assunte dagli Stati che avrebbero dovuto rimuovere tribolazioni e paure, e garantire sicurezza e, in qualche modo, prosperità. Quali sono gli scenari odierni? Innanzitutto il processo di civilizzazione è costato già di per sé guerre, distruzione e morte; a livello politico si assiste, oggi, al divorzio tra società civile e potere politico; a livello economico, il liberismo ha disatteso le promesse di benessere diffuso, allargando la forbice tra ricchi e poveri, e moltiplicando le povertà; a livello sociale, i miti del successo facile, il consumismo esasperato e l’influenza dei modelli di mercato ci spingono ad una competizione costante e spietata. L’uso acritico della tecnologia indebolisce le relazioni che si riducono a contatti fugaci e superficiali; la liquidità (Baumann) delle figure educative e degli ideali conducono ad una privatizzazione della speranza, ossia ad uno svuotamento della capacità di guardare con fiducia, coraggio e fantasia al domani. Viviamo sdraiati, dice Remo Bodei, incapaci di una lotta interiore costruttiva che ci spinga a migliorarci. Viviamo spaventati, preda di paura, invidia e risentimento. La lotta è tutta esteriore, tragedia senza catarsi di uno contro tutti, ed è con qualcuno, solo se questo qualcuno può tornare utile, quasi sempre, per scopi privati.

Fotografia triste e ancora attuale: il Covid – 19 è molto più piccolo del pungiglione dell’ape, ma assolutamente non trascurabile.

Cosa possiamo fare? Certamente non è possibile cambiare il volto del nostro tempo, né dare una veste nuova ai grandi scenari economici, politici e sociali. Tuttavia, ognuno può fare qualcosa con sé stesso: è la lezione dei grandi dell’umanità, in tutti i tempi e in tutte le latitudini. Possono cambiare i macrocontesti, ma forse, ci sono cose, nel cuore dell’uomo, che non cambiano.

Cosa possiamo fare, dunque?

Possiamo, ad esempio, ripartire dalla lezione dei classici che, si chiamano così, proprio perché sono in grado di dirci cose che vanno a toccare quelle corde che sono costitutive del cuore umano. Nella Politica, Aristotele intende lo stato di natura in modo antitetico rispetto a quello di Hobbes: l’uomo tende per natura alla vita felice e la vita felice si può realizzare solo nella polis che è anch’essa una società naturale, come lo sono la famiglia e il villaggio. Ma se questi ultimi servono per la soddisfazione delle necessità quotidiane legate alla sopravvivenza, la polis è necessaria all’uomo per realizzare la sua natura, ossia il suo compimento, la sua perfezione come essere umano: nella polis ci sono l’agorà, il teatro, la scuola, ossia l’arte e l’educazione. Nella polis ci sono attività che si fanno, non perché sono utili, ma soltanto perché è bello farle – ed è bello farle insieme ad altri – e che, in quanto tali, ci rendono uomini, non animali.  Nella polis c’è la legge, fuori di essa ci sono gli dei e i bruti, cioè la perfezione o la guerra, perché i bruti sono quelli che non hanno la parola, il linguaggio e con esso la possibilità di dialogo. Nella polis il conflitto si esprime attraverso l’arte dialettica, cioè il confronto di posizioni, attraverso la parola e le regole dell’arte oratoria. Il logos, ossia, la capacità di discernere, di riflettere e di argomentare è dunque una fondamentale possibilità di gestire in modo umano e civile il conflitto con gli altri.

Possiamo, inoltre, invertire il movimento della contesa, richiamare a noi le proiezioni, riconoscere i nostri desideri, distinguendoli dalle passioni e dalle paure, e trasformare così il conflitto con gli altri in lotta interiore, finalizzata non a vincere contro qualcuno, ma a migliorare noi stessi. L’altro avrà sempre qualcosa che noi non abbiamo, semplicemente perché l’altro è qualcuno che noi non siamo. Andando oltre il mito del dialogo, dell’integrazione e della comprensione alle quali dovremmo tendere con quello, Massimo Recalcati ci invita a pensare che in ogni conflitto si cela una cifra di differenza assolutamente incolmabile. E che va semplicemente accolta e ascoltata. In tal modo potremo portare a compimento quella inversione di movimento e trovare un po’ di pace in noi stessi. Senza questa pace dentro, non c’è pace fuori.

Possiamo imparare dagli antichi, come ci ricorda Carlo Sini, che esistono due tipi di Eris: la contesa cattiva, che è madre della competizione esasperata da un lato e la contesa buona, che è madre dell’emulazione, di quella spinta squisitamente umana a dare il meglio di sé. Le due Eris hanno la stessa radice e rappresentano un modo inevitabile del processo di sviluppo della vita. Nella nostra società complessa non è pensabile né una emulazione assolutamente disinteressata, né è accettabile una competizione spietata, che miri all’annientamento dell’altro. E’ necessario, allora, assumere l’inevitabilità del conflitto che, però, possa svilupparsi attraverso un movimento capace di pensare le differenze. L’uomo viene dalla foresta, dallo stato primitivo di Hobbes e Rousseau, esattamente come gli animali. Tuttavia, gli animali sono gli archetipi di sé stessi: le api collaborano per costruire il loro alveare e attaccano l’orso che lo minaccia anche a costo della vita, e lo fanno nello stesso modo da sempre. Anche gli uomini sanno collaborare, quando condividono interessi e obiettivi.

Qual è la differenza? Gli animali collaborano senza esserne consapevoli e attraverso le stesse modalità da secoli e perseguendo lo stesso fine che è quello della conservazione della specie. Gli uomini sono consapevoli delle loro azioni o possono esserlo. Gli esseri umani, per diventare tali, hanno bisogno di modelli: Esiodo, Nietzsche, Dante…la letteratura, la poesia, la filosofia, la scienza, la musica, l’arte… tutta la cultura attraverso i secoli si offre a noi, se sappiamo ascoltare e ci regala segni preziosi capaci di indicarci vie nuove per inventare la polis del 2021, la polis dove si faccia una guerra di cultura e di idee, la polis che non sia solo dell’emergenza ma attraverso l’emergenza, la polis che sappia fare memoria e  distinguere le due Eris, per tendere alla pace.

Il conflitto è ineliminabile, come la capacità di collaborare. Possiamo costruire campi di concentramento o cattedrali. A noi la scelta.

di Patrizia Ciccarella