Il flusso inarrestabile dell’infodemia

La malattia

È ovvio che se vi fosse una parola per descrivere il 2020, la candidata più probabile sarebbe pandemia. Eppure lo stato di emergenza in cui ci siamo trovati e nel quale ancora stiamo annaspando ha modificato notevolmente il mondo circostante e il nostro stile di vita, tanto da far nascere un nuovo ricco vocabolario che è entrato a far parte del quotidiano. Tra assembramento, congiunti, SARS, PFF2 e affetti stabili, emerge la neonata parola “infodemia”, utilizzata per descrivere la pandemia di informazioni che si è diffusa di pari passo al COVID-19.
In realtà “infodemic” è un termine che ha già qualche anno: il primo a parlarne fu David J. Rothkopf, presidente e CEO di Intellibridge Corp., su un articolo del Washington Post del 2003, quando vi fu la prima epidemia SARS. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) se ne è poi appropriata per sottolineare il pericolo della disinformazione e del terrore che fake news e post sui social stavano diffondendo all’esplodere della pandemia a febbraio. D’altronde Treccani definisce infodemia una “circolazione di quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”; quale vocabolo potrebbe definire meglio la confusione mediatica che ancora oggi perversa?

I sintomi
“Bere alcol concentrato uccide il virus”, “La vitamina D può prevenire l’infezione da coronavirus”, “il COVID19 è un’arma biologica prodotta dalla CIA”, “le abitudini alimentari cinesi hanno causato il COVID-19”; queste sono solo una piccola parte degli effetti dell’infodemia che stiamo affrontando. Voci, teorie del complotto, pregiudizi etnici sono i sintomi di un’influenza comunicativa in stadio avanzato e il saperli individuare ci porta ad identificare numerose altre infodemie nel corso dell’ultimo ventennio: a partire dalla SARS 2003, nella quale il termine è nato, sino alla diffusione dell’HIV in Sud Africa e all’Ebola, ritenuta addirittura un’invenzione medica a scopo di lucro. Tutte hanno in comune non solo i tre sintomi suddetti, ma anche le fonti di diffusione: telegiornali, social e dichiarazioni di esperti. Se infatti alla sovrabbondanza di informazioni, più false che vere, siamo esposti quotidianamente, le infodemie sono vere e proprie ondate di notizie, provenienti da voci anche autorevoli che non si sono confrontate tra loro, che non hanno la certezza assoluta delle loro ipotesi e che speculano con termini talvolta poco comprensibili su argomenti che riguardano l’intera popolazione. È sufficiente considerare che nel periodo di maggior affluenza di informazioni, sulle prime pagine di giornale dominavano dichiarazioni e virgolettati di esperti medici e virologi, epidemiologi e direttori di istituti di ricerca, tutte fonti autorevoli, ma completamente discordi. Queste discussioni erudite, prive di linguaggio divulgativo, incrementano i rumors che poi vengono condivisi sui social, si trasformano in teorie complottiste e infine in pregiudizi stigmatizzati; così una pessima comunicazione si trasforma in un pericolo a lungo termine che rischia di rompere la fiducia di molti nelle istituzioni e negli esperti o addirittura di discriminare una minoranza in virtù di un’incomprensione. 

La cura

Mentre l’indice Rt raggiungeva i suoi picchi massimi, tra gennaio e aprile 2020 ci sono state ben 2.311 segnalazioni relative all’infodemia sul COVID-19 in 25 lingue da 87 paesi. Si spera che i vari vaccini che stanno entrando ora in circolazione siano un argine abbastanza resistente da frenare la pandemia, ma come potremmo affrontare l’infodemia?
È evidente che il pluralismo e la libertà di informazione sono i principi essenziali della società democratica e pertanto non è pensabile alcuna forma di censura; inoltre una “sorveglianza” informativa sarebbe inutile, dato che l’infodemia non nasce solo da fake news, ma anche dall’eccesso di notizie costantemente aggiornate. Dunque per preparare il vaccino adatto a tale emergenza è necessaria una miscela di ingredienti difficili da ottenere, ma non impossibili: innanzitutto il vaglio critico del lettore, il quale dovrebbe essere educato affinché sia in grado di approfondire affermazioni incerte e confuse, consultando siti e documenti di istituzioni e studi periti; ovviamente per aiutare tale processo sarebbe opportuno che gli esperti si confrontassero in privato e risolvessero insieme i loro dubbi, prima di dichiarare alcunché. Tuttavia l’ingrediente più importante è la rivalutazione complessiva del giornalismo frenetico degli ultimi dieci anni, legato all’agenda delle breaking news e al solo scopo di fare notizia e iniziare a considerare una forma di slow journalism che verifichi più approfonditamente le fonti, selezioni accuratamente gli argomenti da trattare e li analizzi senza mai dimenticare l’attenzione per il pubblico. D’altronde sono i giornali ad avere il compito di comunicare e ripensare il metodo di tale comunicazione è necessario in un mondo in cui l’edicola virtuale dell’homepage si aggiorna senza sosta e senza alcuna garanzia di autenticità: invece di rincorrere vanamente ogni briciolo di notizia per dominare un algoritmo al fine di guadagnare click, oggi il giornalista ha il compito morale di preferire la qualità alla quantità e di vendere al lettore una soppesata verità. Forse solo così nel flusso inarrestabile dell’infodemia sarà possibile trovare ogni tanto una zattera stabile a cui aggrapparsi per riprendere fiato e comprendere meglio la situazione che ci circonda.

Alessia Priori

Classe 5B – Liceo Classico Galileo di Firenze