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Recensione “Loving Vincent”, quando si vede il mondo da lontano

Il 26 dicembre 2020 è andato in onda in prima serata su Rai 3 “Loving Vincent”, film d’animazione ispirato alla vita di Vincent Van Gogh, prodotto in collaborazione tra Polonia e Regno Unito nel 2017, scritto e diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman, che vede la collaborazione di oltre 100 disegnatori.
Quand’ho cominciato a guardarlo ero più che altro incuriosito dall’animazione, che consiste nella fusione della tecnica del rotoscopio – ovvero immagini animate sopra filmati di attori reali – con l’imitazione fedele dello stile pittorico di Van Gogh. In pratica vediamo per tutto il film questi dipinti ad olio prendere vita e i personaggi muoversi, gesticolare, commuoversi. Il vantaggio di usare l’animazione in un film del genere è il controllo assoluto sull’espressione dei personaggi, frame per frame; ed anche se questo quando si utilizza il rotoscopio viene un po’ castrato dalla performance dei soggetti reali, con un impegno da entrambe le parti degli attori e degli animatori il risultato che si può tenere è sempre pregevole. Il rotoscopio però ha un difetto: non lo si può utilizzare per inquadrare un personaggio in movimento in un campo troppo largo. In pratica se animassi ricalcando il video di una persona che balla, le figure che ne verrebbero apparirebbero deformate a causa della prospettiva: appunto questa tecnica veniva utilizzata nei cartoni di Betty Boop per animare personaggi come Ko Ko, che dava un senso alienante nel contesto. In questo film gli animatori erano a conoscenza di questo e quindi hanno alternato retroscopio ad animazione classica. Solo che per la maggior parte del film vediamo, a causa del largo uso di retroscopio, queste inquadrature a mezzo busto che danno un senso di staticità, unico difetto del comparto tecnico di questo film.
L’animazione si risolve in delle splendide composizioni che danno vita ai quadri di Van Gogh. I personaggi respirano, toccano, camminano, guardano, attraverso l’opera dell’artista. Numerose sono le citazioni ai suoi dipinti. Lo stile di Van Gogh però si alterna con un disegno molto più dettagliato con carboncino, usato per animare i flashback della narrazione. Questi servono a dare un’immagine più chiara del contesto che i personaggi stanno vivendo. La storia però non si muove verso la chiarezza, come vedremo, ma verso il dubbio, e quindi verso l’interpretazione artistica. Dunque a una prima parte dominata dai flashback segue un secondo tempo in cui a farla da padrone sono le immagini riprese dallo stile di Van Gogh.
Passiamo alla parte centrale del film, la storia. Il film non è del tutto biografico, in realtà è un giallo dai toni Noir che vede il figlio di un postino ritrovarsi con un lettera scritta dal defunto Vincet destinata al fratello Theo; solo che Theo è morto, e adesso questi deve trovare un modo di contattare la famiglia di quest’ultimo. Egli decide di consultare il dottore amico di Vincent, Paul Gachet, che però è via per lavoro. Il nostro protagonista allora si ritrova a soggiornare nello stesso quartiere dove Vincent ha passato gli ultimi mesi prima di morire – si dice – suicida. Lui sentirà crescere un legame con l’artista e condurrà un’indagine per scoprire le vere cause della sua morte.
All’inizio questo film può tediare, perché tutta la prima parte lo fa sembrare come se fosse la semplice esposizione attraverso flashback della vita dell’artista, al pari di “Van Gogh – Sulla Soglia dell’Eternità” del 2019; tant’è che finito il primo tempo ho pensato che un simile impiego artistico fosse sprecato per una sceneggiatura del genere; invece il film era solo lento a partire. Trae in inganno all’inizio, ma in realtà, finita la lunga esposizione, l’indagine comincia e vediamo il protagonista immergersi in questi scenari e interagire con tutte le persone che hanno avuto un ruolo chiave nella vita dell’artista. Siffatta struttura della narrazione mi ha ricordato molto la graphic novel “Providence” di Alan Moore, che vede un’indagine svolta attraverso i luoghi e i personaggi immaginati da H. P. Lovecraft, e non escluderei che i registi si siano ispirati ad essa.
Il protagonista penetra in maniera anarchica all’interno dei celebri scenari di Van Gogh, e il suo modo di inserirsi in questi quadri funziona su due livelli. Il primo livello è quello del regista, il secondo è quello del pubblico. Nel livello del regista è espresso come questo personaggio, che attraverso le varie testimonianze sta cominciando a empatizzare con il defunto, viva adesso in un mondo simile a quello dell’artista, lontano da un verità oggettiva e quindi dagli altri. Nel livello del pubblico, ovvero quello interattivo, lo spettatore vede appunto gli scenari a lui noti dilaniati da questa figura intrusa, e così il senso di alienazione viene sempre più accentuato.
L’indagine si muove verso la soluzione del mistero della morte di Van Gogh, ma non vi giunge mai, e nel frattempo rivela la rete degli affetti che l’artista ha avuto negli ultimi mesi in quel quartiere. Ogni personaggio incontrato ha sia voluto bene a Vincent, ma al contempo ad un certo punto gli si è dovuto allontanare, a causa della distanza tra il modo dell’artista di vedere il mondo e il proprio. Tanto che alla fine non importa più come Vincent sia morto, ma perché; e a prescindere da tutto il perché è proprio la sua solitudine.
Loving Vincent è un film da recuperare in questi giorni su Rai Play, perché utilizza la storia di Vincent come un pretesto per farci riflettere sulla distanza tra noi e il mondo e sul nostro modo di compensarla. Il film si chiude con la metafora perfetta per veicolare questo messaggio: il cielo stellato. Le persone sono a Vincent irraggiungibili come le stelle, e chissà se in morte quella distanza si possa colmare.

Riccardo Giovanni Scalone, V DSA