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Il pericolo rappresentato dal Web e l’impatto che ha sui più giovani

Il problema vero non sono tanto le mode in quanto tali perché si tratta molto spesso di personaggi strumentalizzati per creare viralità nel web” ci dice Maura Manca, psicoterapeuta e presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza. “Quando si parla di suicidio, soprattutto in età evolutiva, si ricerca una sorta di sensazionalismo per fare uno show mediatico perché è una notizia che attira l’attenzione del pubblico”. “I ragazzi, come i bambini, sono attratti da queste creazioni del web per una curiosità insita nella crescita, per omologazione e, in alcuni casi, soprattutto quando si tratta di contenuti che fanno paura, per una sfida, un modo per dimostrare il proprio coraggio”.

Man mano che cresce la diffusione social di queste ‘challenge’ – continua la Manca – aumenta anche il numero di profili paralleli, di post e di hashtag. Noi non sappiamo chi si nasconda dall’altra parte, non conosciamo le reali intenzioni di chi si cela dietro quello che è un gioco non gioco”. Ci possiamo trovare davanti ad adescatori che “vogliono catturare i minori e portarli nella loro rete, persone che manipolano la mente dei ragazzini facendo leva sulla curiosità adolescenziale, sulla loro influenzabilità e vulnerabilità”: in poche parole su soggetti condizionabili che rischiano “di trovarsi davanti a un burattinaio senza avere gli strumenti per riconoscerlo”. Ma il suicidio non è un raptus, è nella quasi totalità dei casi il risultato di un percorso “incidentato”, fatto di problemi pregressi e situazioni irrisolte.

Il vero rischio di queste challenge, che, grazie alla diffusione rapida di ogni tipo di contenuti mediatici, si propagano e si insidiano nelle vite di qualsiasi persona in pochissimo tempo, è invece proprio il fatto che esse costituiscono un problema generale su tutti i fronti e, a differenza di quanto dice la presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, la parte integrante e fondamentale del problema consiste proprio nella sottovalutazione e nella quasi normalizzazione della diffusione istantanea di challenge che istigano al suicidio, al provocare a se stessi dolori fisici per seguire quello che è veramente considerato e fatto passare per un “gioco” tra ragazzini o meglio bambini che nella fase più fragile, vulnerabile e delicata della loro vita, sono indotti a credere che ciò che viene loro chiesto di fare sia una sorta di passatempo, di prova, un qualcosa di innocuo che cela dietro di sé la manipolazione da parte di persone malate che attraverso messaggi anonimi, chat di gruppo e molto altro, portano pian piano avanti questo “percorso” malsano di prove e sfide che dei semplici bambini considerano dei test da superare e che spesso portano inevitabilmente alla loro morte.

Parliamo ad esempio della Blue Whale challenge che è forse la più vecchia di queste follie circolate sul web, si tratterebbe di una sfida in cui i giovani sono chiamati ad affrontare cinquanta prove estreme in cinquanta giorni, fino al suicidio. Ogni prova, come camminare sui binari delle ferrovie, va ripresa e poi caricata sui social, tuttavia non è mai stato accertato che Blue Whale esistesse veramente.

Prendiamo sennò in considerazione Jonathan Galindo, un personaggio con le sembianze di Pippo della Disney, ma con lineamenti decisamente più inquietanti, che si palesa con una serie di account falsi sui social network, non solo su Tik Tok ma anche Facebook e Instagram, e a quanto pare chiede l’amicizia ai giovani utenti, contattandoli subito dopo e inviandogli un link che propone loro di entrare in un gioco, nel quale vengono lanciate sfide e prove di coraggio che arrivano fino all’autolesionismo. Si è parlato in Italia del caso del suicidio di un bimbo di 11 anni di Napoli, avvenuto lo scorso settembre, un bambino che prima di cadere dall’undicesimo piano ha scritto un ultimo messaggio ai suoi genitori dicendo “Mamma, papà, vi amo ma DEVO seguire l’uomo col cappuccio”. Ora mi chiedo, cosa spinge così nel profondo un bambino di 11 anni, agli occhi di tutti apparentemente felice, a tal punto da arrivare a credere di dover morire per una causa che nemmeno lui conosce veramente?

L’ultimo fenomeno di cui si sta parlando ultimamente è invece la Blackout challenge, che consiste nel togliersi l’ossigeno con una corda o una sciarpa, legate attorno al collo, fino a provocarsi uno svenimento. Ovviamente il tutto viene filmato o fotografato e questi video o immagini vengono poi postate online, sui social, per dimostrare di aver superato la sfida. Per attirare i giovani partecipanti vengono diffuse anche delle bugie sulla challenge, come quella secondo cui farlo provochi un’insolita euforia, quella di gettarsi da soli tra le braccia della morte prima di aver iniziato a vivere veramente credo. La verità è, infatti, che il soffocamento “porta a sensazioni di panico e a una perdita di conoscenza che può causare dei profondi danni neurologici”, come spiegato a Repubblica da Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano.

Certamente, come è stato detto da Maura Manca, notizie e casi riguardati suicidi infantili portano ad uno shock mediatico, più che ad uno show, e attirano notevolmente l’attenzione di un pubblico che cerca risposte alle proprie domande e un motivo per cui accade tutto ciò. Non possiamo sapere con certezza se dietro ai casi di tutte queste morti infantili ci siano altri motivi legati a problemi repressi, a crisi di identità, alla fin troppo diffusa sensazione dei ragazzi adolescenti di sentirsi inadatti, fuori luogo, spesso sbagliati e incompresi, ma inevitabilmente è questo ciò che la vulnerabilità dei giovani ci porta a pensare e a credere.

Tuttavia al di là delle ipotesi che potrebbero spingere un bambino a fare tutto ciò, vorrei indurre ad una riflessione su ciò che contribuisce in modo particolare all’incremento della pericolosità del problema: viviamo in una società in cui la tecnologia è alla base della nostra vita quotidiana, in cui le apparenze e i giudizi della gente sul proprio conto rappresentano ora più che mai la vera essenza di una persona, soprattutto in fase adolescenziale; una società in cui il dimostrare viene prima dell’essere, in cui prima di conoscere effettivamente una persona, la si nota sui social, ci si parla in chat. Viviamo in una società che basandosi sui progressi tecnologici ha portato a tanti miglioramenti quanto a “piccole” essenziali problematiche, che si riversano in particolar modo sulla vita dei più giovani, dei più “deboli”, dei più influenzabili, e che inducono a fare spesso cose insensate come mandare foto compromettenti a gente di cui non si sa nulla, solo per sentirsi dire quanto si è belli e desiderabili, come credere di apparire più forti e rispettabili agli occhi degli altri tormentando e prendendo in giro anche sui social chi non si sa difendere, chi non ha la forza o gli strumenti per farlo, come credere di mostrarsi coraggiosi o di accrescere la propria autostima affrontando sfide e prove pericolose e autolesionistiche che inducono e istigano al suicidio.

Si è passati dalle raccomandazioni riguardanti il “non accettare caramelle dagli sconosciuti” o il “non dare confidenza a chi non si conosce” o ancora il “non salire in macchina di altri anche se dicono di essere venuti a prenderti al posto di mamma o papà”, al dare tranquillamente in mano a dei bambini strumenti altrettanto pericolosi come ad esempio i cellulari e a qualsiasi età; la sola differenza sta nel fatto che il cellulare diventa qualcosa di intimo, di segreto, quasi di inviolabile, pur essendo lo strumento più “aperto” a pericoli di ogni genere.

Oggi si parla cyber-bullismo, di questi fenomeni virtuali che vengono fatti passare per giochi e di molto altro ancora, che si divulgano nell’anonimato ma che hanno anche effetti ben peggiori di qualsiasi altro rischio. Tutto ciò che è legato a internet, ai social, è di diffusione mondiale, foto o video compromettenti, prese in giro, propagazione di “giochi” pericolosi, ma soprattutto è fin troppo facile violare la sfera privata di una persona e ciò porta come in questo caso alla necessità di dover avere paura o di dover essere attenti anche solo ad accettare una richiesta su Instagram o su Facebook, a dover prestare estrema cautela nel divulgare dati personali come numeri di telefono, e-mail o altro. In particolar modo è essenziale sensibilizzare e mettere in guardia quanto più possibile i più giovani e fin da subito riguardo i numerosi pericoli e le cose da evitare, in quanto fenomeni come questi di cui abbiamo parlato finora sono sempre più all’ordine del giorno proprio a causa dell’impressionante rapidità con cui essi vengono diffusi e soprattutto a causa dell’estrema vulnerabilità di ragazzi e bambini che, al di là delle altre cause effettive e pregresse che potrebbero esserci, vengono comunque istigati e coinvolti come se facessero parte di una prova di coraggio che mette in pericolo costantemente la loro vita.

Giulia Cortesi 3E