Eutanasia: libertà a morire o condanna alla vita?

 

Martina Concetta D’Antoni, 3B

 

Comunemente conosciuta anche come “suicidio assistito”, l’eutanasia consiste nell’indurre la morte volontaria ad una persona nel modo più rapido e indolore possibile, in quanto quest’ultima affetta da malattie incurabili e per le quali il protrarsi delle cure non provocherebbe alcun miglioramento, anzi, un perpetuarsi di atroci sofferenze. Centro di forti controversie e continue diatribe tra i sostenitori e non del “diritto alla morte”, l’eutanasia è ancora oggi un delicatissimo tema a sfondo etico le cui argomentazioni risultano complesse e varie. Con la medicina moderna, si è arrivati al punto in cui l’unica metà auspicabile non sia solo quella di “salvare la vita”, ma di cercare di prolungarla, anche quando essa non può promettere più nulla. Pertanto, si è soliti parlare di accanimento terapeutico, accanimento verso una vita che non ne può più e che forse vorrebbe solo il diritto di spegnersi.

Come una candela che non riesce più ad alimentarsi della sua stessa fiamma, la vita, il bene più prezioso che ci è stato donato, a volte, urla di non farcela. Innumerevoli sono i fatti di cronaca che hanno richiamato l’attenzione degli italiani sul dibattito relativo all’eutanasia: dal caso di Terri Schiavo, giovane donna statunitense da tempo in stato vegetativo persistente, per la quale, su richiesta del marito l’autorità giudiziaria dispose la sospensione dell’alimentazione artificiale, al caso di Piergiorgio Welby che, affetto da distrofia muscolare progressiva e costretto a respirare con il supporto di un macchinario, chiese volontariamente la sospensione delle cure e scrisse un libro, il cui titolo “Lasciatemi morire” dà voce all’urlo di sofferenza anche di chi è assorto nel buio di silenzio, silenzio che, a differenza dei casi illustrati, impedisce al malato di dichiarare la sua volontà. È infatti in questi casi che l’etica inasprisce le riflessioni da parte delle opposte posizioni di scienziati, medici, esperti di morale e uomini di Chiesa: in caso di incoscienza del paziente a chi sarà delegata la possibilità di decidere per il futuro della sua vita?

Se è dunque, forse, ammissibile un’eutanasia voluta dalla persona senza più alcuna speranza, in grado però di esprimere (o che aveva già espresso attraverso il testamento biologico) la volontà di porre fine alla propria esistenza, quale posizione bisognerebbe assumere se l’individuo interessato si trovasse in stato vegetativo? Di fronte a questi interrogativi, decisiva è la posizione dell’Italia che si definisce sfavorevole alla “buona morte”. Pertanto, la questione resta ancora aperta e fortemente dibattuta e risulta difficile assumere una posizione che tenga conto delle diverse circostanze, ma il comune denominatore che potrebbe ricucire i vari versanti è sicuramente la tutela della dignità umana.