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Cinque recensioni del libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi

 

Se questo è un uomo è un libro, o meglio un romanzo, che testimonia e ricorda i sopravvissuti e le crudeltà accadute all’interno dei campi di concentramento nazisti che Primo Levi ha vissuto in prima persona
L’autore, come ha affermato anche in molte interviste, scrisse questo romanzo per liberarsi del male e delle orribili scene accadute all’interno del campo, scrisse un po’ come autoterapia ma anche perché si era ripromesso, quando si trovava all’interno del campo, che una volta fuori doveva scrivere un libro e raccontare la crudeltà e le brutalità che egli stesso, insieme a milioni di persone innocenti, aveva vissuto.
Scrive e racconta in prima persona, utilizzando un tono pacato e non arrabbiato (come giustamente avrebbe dovuto essere), utilizza il tono pacato perché voleva rendere la crudeltà che aveva vissuto ma senza impietosire nessuno, voleva essere solo un testimone.
All’interno del romanzo possiamo trovare anche dei riferimenti al classicismo, ovvero troviamo riferimenti alla Divina Commedia, poiché Levi paragona il lager all’Inferno dantesco, e ogni luogo a un girone sempre più terrificante, a partire dall’ingresso del campo associato all’iscrizione sulla porta dell’Inferno “Per me si va nella città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente”.
Questo romanzo viene ad oggi considerato come uno dei più significativi del dopoguerra e anche definito come ‘documento storico’.
Un momento che mi ha emozionato molto è quando stringe il rapporto di amicizia con Arthur, Lorenzo e Charles, che sono stati fondamentali per lui perché lo hanno aiutato a non scordarsi della propria identità.

Ho letto varie volte questo libro, mi è stato assegnato alle medie, poi i primi anni di liceo e ora all’ultimo, ma ogni volta è come se fosse la prima, anche perché penso che la natura umana non ami ricordare momenti così atroci della nostra storia. Ho persino letto altri libri, come per esempio gli esperimenti di Joseph Mengele, poiché mi hanno sempre incuriosito sin da piccola, perché mio nonno paterno all’età di cinque anni venne buttato fuori casa dai nazisti, i quali gli levarono tutto, compresi i genitori e i suoi tre fratelli che non rivide mai.
Ecco io penso che bisognerebbe informarsi, perché gente che ha vissuto tali crudeltà ha il diritto di farlo sapere e in qualche modo trovare una via per sfogarsi, elaborare il proprio dolore e avere giustizia.
Se questo è un uomo descrive come ebrei, zingari, omosessuali, malati e tutti coloro che erano ritenuti dei nemici venivano uccisi, umiliati, togliendo loro ogni forma di dignità, spogliandoli di tutto, persino del proprio nome che veniva sostituito da un tatuaggio con un numero.
Levi stesso dice che gli uomini si potevano paragonare a bestie da macello perché il campo di concentramento aveva lo scopo primario di annullare l’uomo, togliendogli la dignità.
Nel romanzo racconta tutti gli eventi intercorsi da quando è stato catturato a quando è stato liberato, e ci fa capire che mentre si trovavano lì, oltre che essere umiliati e schiavizzati, vivevano in un costante stato di ansia, paura, vergogna, avevano fame, dormivano poco e niente, non vivevano più.
Il romanzo inizia con una poesia i cui primi versi danno il titolo al romanzo, e finisce poi con delle ‘maledizioni’ contro chi non vuole capire o chi non ci crede.
È un romanzo capolavoro della letteratura italiana. Consiglio vivamente a tutti di leggerlo, ti rimane nel cuore e nella mente, perché è giusto ricordare, perché non dobbiamo dimenticare le atrocità commesse dagli uomini e perché dobbiamo far onore a chi, uscendone, ha avuto la forza e il coraggio di raccontarle.

Beatrice Cerutti VG

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Se questo è un uomo è un capolavoro autobiografico e memorialistico pubblicato per la prima volta nel 1947 e che narra la testimonianza sconvolgente dell’esperienza dell’autore partigiano ed ebreo Primo Levi nel campo di concentramento di Auschwitz.

È un’opera indispensabile per la formazione di ciascuno di noi. Rende i lettori consapevoli e partecipi delle atrocità vissute dall’autore recluso nel campo descritto come un Inferno dantesco però privo di allegoria, che consuma ed annienta le sue vittime mediante umiliazioni senza precedenti, condizioni di vita disumane, lavoro estenuante, abuso, terrore e totale indegnità.

Ciascun deportato perde inevitabilmente la speranza nella salvezza e viene forzatamente ridotto a perdere la sua umanità. Non c’è neppure alcuna solidarietà, non soltanto a causa della varietà di lingue dei prigionieri, ma ognuno finisce con l’abbandonarsi a sé in quanto qualsiasi tentativo di sopravvivenza pare infruttuoso.

Il giovane Primo Levi ci tenne ad introdurre con una prefazione la sua fortuna nell’essere stato deportato solo nel 1944 quando il governo tedesco aveva deciso di sospendere le uccisioni per via della scarsità di manodopera, altrimenti egli non ne sarebbe uscito vivo. Ammette di non essere uno scrittore e di essere consapevole dei possibili errori strutturali, questo libro non è di fatto un romanzo, bensì un racconto di vicende – purtroppo realmente accadute – nato dal bisogno di far ricordare tali eventi, le procedure, episodi nel campo, la confusione e la paura.

L’ultimo capitolo del libro, in realtà epilogo (Storia di dieci giorni), racconta sotto forma di diario il ricovero dell’autore malato di scarlattina, ricovero che lo salva poiché Levi viene escluso dal trasferimento da Auschwitz dei deportati sani di fronte all’arrivo dell’Armata Rossa. L’evacuazione del Lager, in verità, è una spedizione che condurrà i prigionieri, tra cui l’amico Alberto, alla morte.

Nadina Ciurea VG

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Questo libro è una raccolta di memorie e testimonianze dell’autore riguardo alle terribili esperienze vissute nel campo di concentramento di Auchwitz.

Primo Levi fu deportato nel 1944 ad Auchwitz, dove ogni giorno fu costretto ai lavori forzati, a patire il freddo e la fame senza sapere nulla sulla sorte delle persone amate.

Colpisce il fatto che non vi era spirito di fratellanza tra i deportati, anzi spesso regnava l’egoismo perché ormai gli uomini, ridotti in quelle condizioni, avevano perso tutta la loro umanità.

Il narratore si limita a raccontare, non esprime odio o autocommiserazione, come se non fosse stato una delle vittime. Questo perché lo scopo non è tanto quello di elaborare i propri sentimenti, ma sviluppare nel lettore la memoria, la consapevolezza e l’orrore mostrando ciò che è successo.

Primo Levi non era uno scrittore, ma un importante testimone. La scrittura infatti non è fluida e articolata, ma descrive bene invece le vicende vissute, coinvolgendo il lettore nel loro incubo. Inoltre, gli episodi narrati non hanno un ordine cronologico, riflettono i ricordi dell’autore così come sono fissati da lui sulla carta perché, come dice Levi, il tempo nel Lager si è fermato. Tutto si svolge nel presente e per il presente.

Lucrezia De Santis VG

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Se questo è un uomo è un’opera di Primo Levi realizzata a partire dal 1945, è una testimonianza diretta del genocidio dei campi di concentramento nazisti. Lo scrittore venne deportato a Fossoli, campo nel quale avverrà una prima cruenta selezione di chi potrà sostenere lo sforzo del lavoro, dunque vivere, e chi incapace di farlo per le condizioni fisiche, verrà condotto nelle docce a gas, quindi morire. I sopravvissuti alla prima selezione verranno poi portati ammassati in Polonia tramite un vagone merci, senza cibo né acqua per tutta la durata del viaggio. Una volta arrivati, i prigionieri saranno marchiati a vita da un numero che diventerà poi la loro “identità” iniziando così quel processo che porterà ogni uomo a perdere la propria umanità.

La sopravvivenza nel campo era appesa ad un filo e si basava sul non fare domande, sul resistere alle insostenibili condizioni nel campo di concentramento e talvolta a pochissime azioni dettate del caso. Guardando il numero su di lui tatuato, poco inferiore al 200.000, Levi si fermerà a riflettere su quante persone prima di lui sono morte proprio lì.

Lo scrittore racconta l’esperienza condivisa con altri uomini che, come lui, iniziarono ad avere notevoli problemi con il sonno a causa degli incubi che ogni notte li perseguitavano, tra i più ricorrenti quello in cui i familiari e gli amici non ascoltavano quelle che erano le atrocità del campo, oppure, la più che mai veritiera scena in cui al tentare di mangiare, il cibo spariva poco prima che arrivasse la bocca. Ciò che permise a Levi di sopravvivere fu l’essere scelto come aiutante di laboratorio in quanto possedeva delle competenze in chimica. Una commovente scena con il suo compagno francese riguarda l’attesa dell’arrivo della loro povera porzione giornaliera, durante la quale Levi cercò disperatamente di ricordare e tradurre il ventesimo canto dell’Inferno di Dante, che riusciva ad esprimere quella che era la situazione di ogni persona in quel campo.

Con l’arrivo dell’inverno e l’avvicinarsi dei russi iniziarono le cosiddette selezioni che consistevano nel decidere con un sì o un no chi era destinato a sopravvivere o morire. Con il passare dei giorni le condizioni del campo peggioravano sempre di più a causa del freddo, finché l’imminente arrivo delle truppe alleate portò i tedeschi ad evacuare il campo portando con loro tutti i prigionieri ritenuti “sani” in una marcia, che non lasciò superstiti. Le restanti persone, non ritenute idonee, rimasero al campo, tra questi anche Levi perché ammalato di scarlattina. Così lui insieme ad altri uomini malati passarono faticosi giorni a combattere il gelo, la fame e sete, aspettando l’arrivo delle truppe russe, che il 27 gennaio del 1945, sarebbero arrivate.

Le pagine di questo libro forniscono un’eterna testimonianza volta a non far dimenticare le atrocità commesse durante la Seconda Guerra mondiale. Proprio tramite ciò che ci viene raccontato possiamo solo lontanamente percepire ciò che significa privare un uomo della propria identità, dei propri valori e della sua dignità. Il sadismo umano arriva in questo contesto alla sua massima espressione, nell’uccisione senza pietà donne, uomini, anziani e bambini innocenti con una freddezza capace di annullare qualsiasi sentimento proprio dell’animo umano. Le vittime di questo sterminio, furono portate esse stesse all’indifferenza nei confronti della morte a causa del sistematico processo di distruzione della loro personalità.

Gaia Moretti VG

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L’opera Se questo è un uomo venne scritta da Primo Levi tra il 1945-47 e pubblicata dalla casa editrice Einaudi nel 1947. Primo Levi nacque nel 1919 a Torino, scrittore principale della letteratura italiana e uno dei tanti sopravvissuti all’Olocausto. Le sue opere si basano principalmente “sull‘esperienza della prigionia” avvenuta ad Aushwitz.
Nel suo testo capolavoro, Levi parla della sua esperienza nei campi dì concentramento ad Auschwitz. Lui e altri prigionieri vennero deportati al campo, in condizioni disumane, tramite un treno. Appena arrivati a destinazione, Levi come prima cosa notò la famosa scritta sul cancello “Arbeit Macht Frei” (il lavoro rende liberi) dopodiché iniziò a descrivere il campo, lo descrive come una sorta di “fondo” dalla quale non si può riemergere e dove ad ogni prigioniero (Haftling) venivano tatuati dei numeri. I numeri divennero la nuova identità dei prigionieri ed indicavano lo stato di anzianità e la gerarchia dalla quale si proveniva. Dopo esser stati tatuati vennero sottoposti tutti quanti ad un lavaggio e rasatura per poi prendere le divise con assegnazione del lavoro. A Levi venne assegnato il compito di trasportare delle travi pesanti, oltre a questo la vita sarà molto dura partendo dai pasti e dall’igiene. Farà amicizia con altri prigionieri e questo gli dà lo spunto per parlare della vasta mescolanza di lingue e di quanti prigionieri diversi vi fossero nel campo. Un giorno mentre stava lavorando si fece male al piede e non volle assolutamente togliersi la scarpa per paura che si gonfiasse, ma sentiva qualcosa di bagnato che attraversava tutto quanto il piede, era sangue. Decise di andare in infermeria (Ka-Be) ma prima di sottoporsi alle visite dovette mettersi in fila nudo insieme agli altri prigionieri. Dopo delle lunghe ore venne trasferito in camera. Paragona l’infermeria a un “limbo”: non vi erano punizioni e i prigionieri per dei giorni potevano starsene in pace.
Penso che questo sia uno dei principali capolavori, se non che il primo capolavoro che scrisse Primo Levi, in qualche modo leggendolo mi è sembrato di stare lì, vicino a lui in quel campo, paragonato all’Inferno di Dante e caratterizzato da dei giorni per ogni tipo di prigioniero. La lettura di questo libro è come un pugno nello stomaco, si possono immaginare le sofferenze che subivano ogni giorno i prigionieri, venivano privati di tutto e umiliati:

“Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe anche i capelli. Se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome, e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi al forza di farlo, di fare si che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, rimanga”.

Nel campo si soffriva sempre, non soltanto a causa delle umiliazioni fisiche ma anche a causa del freddo, della fame e del duro lavoro, oramai i prigionieri non sapevano più distinguere la differenza tra il bene e il male, l’unico momento in cui potevano “riposarsi” era la notte, anche essendo tutti attaccati sulle brandine, potevano sognare e rivedere i loro cari.
Solo il 27 gennaio del 1945 i cancelli di Aushwitz vennero aperti e i tedeschi costretti ad andarsene perché bombardati dalle truppe russe ma fino a qual momento i prigionieri non smisero mai di lottare per la propria vita.

Petrucci VG

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