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Recensione del film “Non essere cattivo” di Claudio Caligari

Ci troviamo ad Ostia nel 1995, un’Ostia degradata, un’Ostia triste, un’Ostia senza un futuro e che viene raccontata dal regista e sceneggiatore Claudio Caligari nella maniera più cruda e poetica possibile. Alla riuscita del film ha collaborato anche l’occhio provvidenziale di Valerio Mastrandrea per la prematura scomparsa del regista sul set.

Vittorio e Cesare (Alessandro Borghi e Luca Marinelli, perfetti per questo ruolo) vivono dentro alla microcriminalità, ci sguazzano e sono il risultato di una borgata senza prospettive né stimoli.

Sono amici, quasi fratelli, sono cresciuti insieme e si sostengono a vicenda nel tentativo di arrivare alla propria affermazione come uomini vivendo alla giornata attraverso “piccoli” reati.

Scappano continuamente dalla realtà dura ma anche ripetitiva che vivono ogni giorno abusando di sostanze stupefacenti ed alcol, ostentando macchine potenti senza umiltà e senza valori (trasposizione su schermo della società odierna).

Cesare, in quel poco tempo durante il quale resta a casa con la propria madre, accudisce la nipotina malata, rimasta orfana: in questi brevi e unici periodi ci si rende conto della moralità in un personaggio che normalmente vive e sembra trovare conforto nel disagio.

E mentre Cesare cala a picco, soprattutto dopo la morte della piccola, Vittorio invece (che sembra inizialmente non avere nessuno vicino) conosce una ragazza attraverso un espediente narrativo molto interessante. Vuole voltare pagina, cambiare vita: capisce che continuare su quella strada non lo avrebbe portato lontano e trovandosi un lavoro onesto si allontana inevitabilmente dall’amico Cesare che invece persiste nella microcriminalità.

Il film gioca su questi due personaggi che in fin dei conti hanno lo stesso obbiettivo: la realizzazione di sé stessi e di una famiglia. Inizialmente riescono anche nell’intento di costruirsi una pseudo-realtà familiare tutta loro che. però, almeno nel caso di Cesare, viene compromessa da una debolezza morale ed una insicurezza generale che porterà a scelte sbagliate.

Un finale senza lieto fine accomuna questo film ad Accattone di Pasolini come anche altre scelte stilistiche e narrative come l’ambientazione periferica e la marginalità sociale dei protagonisti. Di particolare efficacia in questo senso l’accostamento di due scene che si svolgono entrambe al di fuori di un bar: in entrambe l’atmosfera di attesa e di assenza di prospettive è dominante e paradigmatica.

           

La pellicola è dinamica, avvincente ed impegnata ma sicuramente non pesante, adatta anche ad un pubblico più giovane senza tralasciare la qualità e l’aspetto comico che accompagna la narrazione di tutto il film.

L’utilizzo espressivo del suono amplificato racconta le condizioni emotive dei protagonisti mostrandone lo smarrimento.

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