• Home
  • Blog
  • Articoli
  • Nono nodo: La forza, la fragilità e…un setaccio – un filo di lana

Nono nodo: La forza, la fragilità e…un setaccio – un filo di lana


  1.  La forza

In quelli che spesso vengono indicati come i lunghi secoli bui del Medioevo, gli uomini consideravano la propria vita come necessariamente determinata e garantita dall’appartenenza all’ordine sociale. Le caratteristiche principali dell’immagine piramidale della società erano la definizione gerarchica e l’immobilità. Poco spazio all’immaginazione, poca libertà e molta sicurezza – per chi avesse un guizzo fuori dal limite, una visione diversa, e avesse il coraggio, la presunzione o la follia di mostrarlo oppure l’incapacità di dissimularlo, accusa di eresia o di stregoneria: inquisizione, rogo e fiamme. E di sicurezza l’uomo medievale aveva bisogno in modo primario. Sicurezza di fronte alla fame delle belve e al buio dei boschi, di fronte alle ricorrenti malattie ed epidemie, di fronte ai pericoli delle aggressioni dei predoni, di fronte alla povertà e alla frammentazione dei poteri e, dunque, allo smarrimento derivante dalla mancanza di punti di riferimento sociali e politici. La luce dei due soli disegnata dal sommo poeta nel De Monarchia, l’unica possibile – le ombre erano solo giochi di potere delle alte sfere ecclesiastiche e politiche, che, quasi sempre, rimanevano sulla vetta della piramide.

Tuttavia, come una silenziosa gestazione che porta vita nuova, il buio del Medioevo è, in realtà, una fucina e un fondale.

Riflesso di profondi cambiamenti iniziati già alla fine dell’Alto Medioevo – cambiamenti di natura socioeconomica e politica, esemplificati dalla figura del mercante che esprimerà pienamente, nel Basso Medioevo, nuova apertura e dinamismo – il Discorso sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola, pubblicato nel 1496, viene considerato il Manifesto della svolta Umanistico – Rinascimentale.

Il sole, finalmente, torna all’uomo.

L’uomo rinasce, si riveste di luce, come il primo attore splende sotto l’occhio di bue. E sulla piramide, definita, chiusa e statica del Medioevo, egli, artefice del suo destino, costruisce una scala. Può salire i gradini che sogna, scendere se lo desidera, fermarsi dove vuole. E guardare lontano. Lascia l’ordine e la sicurezza che gliene deriva, si allontana dagli altri con cui ha condiviso l’accidente della nascita, rivendica la possibilità – più tardi si chiamerà diritto – di voler essere sé stesso, realizzandosi in libertà, perché in questo processo di liberazione dai lacci delle condizioni di partenza, risiedono la sua dignità e la sua nuova forma – più tardi si chiamerà felicità. (“Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità.” Così si legge nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776). Chi è quest’uomo che si è liberato dalla paura della natura, tanto necessaria quanto misteriosa e terribile per l’uomo antico? Chi è quest’uomo che, grazie all’abilità delle sue mani, al suo coraggio e alla sua capacità di osservazione e deduzione, si è liberato dal cappio dell’autorità della tradizione?

Chi è questo homo novus?

Davanti a Dio, l’uomo è la creatura sublime, superiore a tutti gli altri esseri, anche agli angeli, perché a differenza di questi, l’uomo possiede la libertà di scelta. Rispetto agli uomini è una fiera astuta e aggressiva, homo homini lupus, capace di rispondere razionalmente alla paura, decidendo di cedere una parte della sua libertà allo Stato, eppure conservandone una dimensione importante per sé e, con essa, assicurandosi ampie possibilità realizzative. A partire dalle rivoluzioni del Settecento, è illuminato dalla ragione, caratteristica fondamentale e specifica di tutti gli uomini, garanzia di un cammino che, come scrive Kant, rappresenta l’uscita dallo stato di minorità, tipico dei bruti e che, dunque, procedendo a braccetto con la Scienza e la Tecnica, apre un percorso di ulteriore liberazione, di giustizia e di prosperità individuale e sociale. Nel corso dell’Ottocento la sua identità acquista la profondità che gli viene dalla sua storia e da quella del suo popolo, il fattoriale di tutte le libertà individuali e che, dunque, come quella dell’individuo, può espandersi attraverso l’inevitabile competizione imperialistica. Nell’arco di quella che Bobbio indica in L’età dei diritti (1997) cioè dalla metà del XVIII sec. fino alla caduta del muro di Berlino (1989) diviene sovrano di sé stesso e co-sovrano della collettività.  E’ l’individuo forte, che è capace di ribellarsi anche se è soggiogato da un padrone. Gioco di potere della coscienza e superamento dei vincoli per l’acquisizione della libertà, magistralmente rintracciati nelle pieghe della Storia da Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito.

La forza è il modo principale dell’individualità moderna.

Forza come la Nina, la Pinta e la Santa Maria di Cristoforo Colombo; forza come l’aggressività del lupo di Hobbes e del Leviatano; come la mano invisibile di Adam Smith, la lama della ghigliottina; come la Volontà di vivere di Schopenhauer, la Volontà di potenza di Nietzsche e la tensione eroica della Cavalcata delle Valchirie;  come la solitudine sicura del Viandante sul mare di nebbia di Friederich e la direzione sfidante del cannocchiale di Galileo, come il grido di Giordano Bruno che risuona ancora a Campo dei fiori. Forza come il progetto delle grandi costruzioni concettuali (Illuminismo, Idealismo, Positivismo, Cristianesimo, Marxismo, Capitalismo); forza come l’audacia che sfida le stelle e conduce gli esploratori sulla Luna; forza come la voce altisonante dei capi dei regimi totalitari e del ritmo terribile dei loro eserciti. Forza come l’altezza del fungo atomico a Hiroshima; forza come l’ostinata capacità di osservazione dei contadini malati di vaiolo da parte del Dott. Jenner, al quale si deve la scoperta della vaccinazione.

Forza come la magnificenza del Titanic. E quell’iceberg, davvero, non ci voleva!

 

 

  1. La fragilità

– Davvero, hanno chiuso le scuole?

– Sì.

– Ma cosa sta succedendo? Dai, riapriranno presto! Chissà quali fini politici o economici si nascondono dietro questa decisione!

– La gente muore.

– Sta’ zitta! Non dirla, questa parola!

– La gente muore, è così!

– Sta’ zitta, ti dico, ci sentono i bambini. E che sarà mai!? Non hai sentito che Trump ha dichiarato che questo virus è una bufala dei democratici…non credere a tutto quello che senti. E non dire più quella parola!

– Sì, forse hai ragione…Ma allora i camion militari a Bergamo che cosa hanno trasportato? Il telegiornale ha detto che erano carichi di bare…

– In ogni caso, non si sa mai… cerchiamo di essere prudenti: indossa come si deve la mascherina e non fermarti a parlare con le persone quando vai a fare la spesa!

– Certo, tanto siamo in lockdown… si può entrare pochi alla volta al supermercato.

– Sì, ma anche lì bisogna stare attenti…la gente è impazzita, hai visto quei disperati che dalla Lombardia hanno preso il treno per scendere giù? E ora come vorrebbero essere accolti? Benvenuti al sud! Cosa si aspettano? Quelli sono tutti malati!

– Bé, non esagerare, con mascherina e distanza dovremmo essere protetti!

– Sei sicura? Potrebbe essere infetta anche l’aria…ho letto su Fb che il virus si attacca anche alle suole delle scarpe.

– Secondo me, questo virus l’hanno prodotto in laboratorio…maledetti cinesi! E ci rovineranno completamente: che ce ne facciamo del Cura Italia? L’economia va a rotoli…con l’ultimo DPCM del 22 Marzo, Conte ha dichiarato misure sempre più stringenti.

– Chi è Conte, papà?

– Uno che non sa che pesci pigliare…tanto pensano solo ai fatti loro, i politici! Vai in camera tua!

– Ho paura! Spegni la tv, non riesco a guardare il Papa in quella piazza bagnata e vuota…

– Ho paura anch’io…Trump è risultato positivo. Forse i democratici non c’entrano nulla e neppure i cinesi.

– Sì, ma allora di chi è la colpa? E’ che i Navigli sono pieni di gente, nonostante i divieti, non sono capaci di rinunciare all’aperitivo!

– Chi? Chi non è capace?

– I giovani… tanto a loro non importa degli anziani, sono loro i soggetti più a rischio.

– Dai, alla fine, scusa la franchezza… lasciamo da parte i tuoi per un attimo, ma… gli anziani sono piuttosto un peso, non sono certo utili… no?

– Di che colore siamo? Rossi, arancioni o gialli? Avrei bisogno di tagliarmi i capelli.

– Non lo so.

– Speriamo che facciano in fretta con il vaccino e potremo tornare alla normalità! Sai che la variante inglese o quella africana, non ricordo… dicono che sia pericolosa anche per i bambini?

– Non farli uscire! E’ vero che forse si annoiano un po’… ma per fortuna hanno tutto ciò di cui c’è bisogno: mangiano anche troppo, stanno al caldo…certo ci voleva un’altra cameretta…la scuola al mattino…

– La scuola?

– Sì…sai cosa avrei dato io per seguire le lezioni dal divano? I nostri nonni hanno salvato il Paese sotto le bombe…e ora basta restare a casa!

– Senti? Stanno cantando l’inno nazionale dai balconi…

– Io porto il cane fuori.

 

 

  1. Un setaccio

Mia nonna usava il setaccio almeno una volta alla settimana per fare il pane, la pasta o i dolci della tradizione. Era un rito lento e silenzioso che, oltre a preparare il cibo per il corpo, rappresentava una sapienza silenziosa e antica che la rendeva l’anima della famiglia: tutti gli esseri viventi si nutrono, dice M. Buber- Il Cammino dell’uomo, ma solo l’uomo conosce l’intenzione che santifica il pasto. E quella intenzione era, innanzitutto, nella condivisione della famiglia riunita intorno alla tavola nei giorni di festa. Ricordo ancora il profumo della farina setacciata nella luce della cucina. Il movimento, mai frettoloso, del setaccio tra le mani sempre operose e, per questo sempre giovani della mia adorata nonnina, divideva i grani della farina permettendo, così, all’aria di penetrare tra le sue particelle e di ottenere un migliore assorbimento dell’acqua. E un pane fragrante e gustosissimo. Da bambina, non ero certo a conoscenza del processo di ossidazione mentre la guadavo lavorare, ma ero rapita dalla sua maestria e dalla magia di sapori e colori. Oggi ripenso a quel movimento e alla separazione che ne derivava, e rifletto.

In questa che viene definita “età globale”, con i pericoli che si sono trasformati in rischi planetari indeterminati – l’epidemia da Covid 19 è solo l’ultima e la più devastante di una lunga catena di eventi tragici degli ultimi anni – cosa resta della forza dell’uomo moderno?

Cosa possiamo salvare? Come possiamo prendere aria, cioè vita – se dobbiamo indossare le mascherine?

Autorevoli esponenti della riflessione filosofica contemporanea – E. Pulcini, R. De Monticelli, J. L. Nancy, per citarne alcuni – sostengono che l’individualità moderna deve riconoscersi come trans – individualità: è necessario riscoprire il valore autentico della relazione con gli altri. Il soggetto della modernità è prevalentemente maschile e tipicamente maschili sono le sue caratteristiche: progetto, efficienza, autodeterminazione, ragione scientifica e tecnica, funzionalità della relazione. La relazione è tutta tesa al raggiungimento degli obiettivi, è una conseguenza o un accidente in senso aristotelico. Può esserci o non esserci a seconda che sia utile o non utile per gli scopi prefissati. Al centro dell’attenzione del soggetto c’è la sua realizzazione. Nella nuova prospettiva già aperta dalle filosofie dell’alterità – Levinàs, Ricoeur, Jonas – siamo invitati al riconoscimento della vulnerabilità come struttura ontologica dell’umano e la relazione è la principale modalità attraverso la quale il soggetto può crescere e svilupparsi. Non è lo sviluppo inteso in senso unilaterale, come autoaffermazione e potenza, ma la crescita (physis) come di un albero, che dalla terra si eleva verso il cielo, in perfetta armonia con il contesto naturale. Non è un movimento lineare come quello di un razzo, di una freccia che mira al bersaglio, del Titanic verso l’America. E’, piuttosto, il movimento del setaccio che va avanti e indietro, il movimento maieutico di contrazioni e rilasci della culla della vita quando genera; è cuore – diastole e sistole; è movimento dei polmoni che si gonfiano d’ossigeno e si sgonfiano. E’ respiro, carne e sangue.

E’ ritrovare la parola antica dalla quale discendiamo tutti.

KNM – ER 1808 è il nome con cui i paleo-antropologi indicano lo scheletro di una donna di Homo Erectus vissuta in Kenia, circa 1, 7 milioni di anni fa. Gli studi hanno evidenziato che era una donna affetta da diverse patologie e che non sarebbe potuta restare in vita senza l’aiuto di altre persone. E’ in questa capacità, in questa attitudine che consiste la specificità e la bellezza degli esseri umani. In questa, e nell’arte e nella ricerca di un senso ulteriore. L’intelligenza che costruisce la ruota non è finalizzata alla ruota, ma al vivere meglio e insieme. Le tombe a tholos, le Caverne delle Mani in Argentina o in Sardegna, dimostrano che quando i primi uomini non erano impegnati a cacciare, mangiare, proteggersi dai pericoli o dormire, portavano i loro piccoli a lasciare un segno, spostavano grandi massi per tentare di mettersi in contatto con qualcosa di più grande di loro.   E’ possibile riconoscere in questi primati la paura, la fragilità e nello stesso tempo, un desiderio e una visione, la capacità di collaborare, di progettare, di condividere, un senso di appartenenza e una domanda: Cosa accade a chi chiude gli occhi e non li apre più? La domanda è la stessa da milioni di anni e, con tutta la nostra forza, non vi abbiamo ancora risposto. E se intendessimo la vulnerabilità come forza alienata? Forza che si estranea, che si nega, che si nasconde…ma pur sempre forza…se resta meravigliosamente umana – né animalesca, né macchinica, come dice Nancy (La pelle fragile del mondo, 2019). La vulnerabilità, antitesi della forza, va riconosciuta e accolta come un’opportunità. Dobbiamo ritrovare la capacità di prenderci cura gli uni degli altri, funzione tipicamente femminile e materna. Solo in questo modo, potremo tornare ad avere una forza rinnovata: non sarà la forza individuale ma trans – individuale, la forza che viene dall’appartenenza al mondo e al tempo, come fluire di storia e generazioni in una Terra che più che dominare, dobbiamo proteggere e custodire. E’ necessario sostare nella fragilità e attivare fantasia e immaginazione per coltivare, in questo tempo dei colori caldi e delle distanze, delle relazioni significative che ci consentano di alimentare il nostro desiderio profondo di vita – e di stelle.

di Patrizia Ciccarella