L’italiano è inclusivo ed əquo?

Che cos’è un linguaggio inclusivo? E perché la cosa dovrebbe interessare anche chi parla italiano?

Un linguaggio inclusivo è uno stile linguistico che evita dei sessismi non necessari e che predilige forme più inclusive nei confronti di chi legge o chi ascolta una lingua. È un dibattito internazionale quello di cercare di rendere le lingue più inclusive e che, quindi, interessa anche l’italiano. Nel corso degli ultimi anni, si sono trovate diverse soluzioni molto interessanti. E’ il caso dell’inglese che ha rispolverato il pronome “they” e “them” come termine neutro. Facciamo un esempio, se ho un amico che voglio invitare a cena e voglio incoraggiarlo a portare la sua dolce metà, uno direbbe: “Feel free to bring your girlfriend, I would love to meet her!”. Il problema è che io tiro a indovinare se la dolce metà del mio amico sia una “girlfriend” o se ha un “boyfriend”? Oppure potrebbe essere un partner che non si identifica nella dicotomia binaria di genere. A questo punto, sarebbe opportuno utilizzare un linguaggio “gender-neutral”, quindi: “Feel free to bring your partner, I would love to meet them”, funziona molto meglio e, in più, l’uso di “they” e “them”, in modo neutro, sono forme molto antiche, attestate sin dal 1375 nel romanzo medievale “William and the Werewolf”. In inglese, gli sforzi per rendere la lingua più gender-neutral, più inclusiva, sono più semplici in un certo senso. L’inglese ha una struttura linguistica con tendenze prevalentemente isolanti (tendenza in una lingua a non flettere le proprie parti del discorso), cosa che invece avviene nella lingua italiana, definita una lingua a carattere prettamente flessivo (tendenza in una lingua ad accordare le proprie parti del discorso).
Ovviamente, le caratteristiche della lingua italiana non ci ha scoraggiato nel corso degli ultimi decenni, ci sono stati contributi importanti per un uso non sessista nel linguaggio parlato e scritto, come le scelte lessicali preferibili e da evitare. Ad esempio, bisognerebbe evitare le scelte: “I diritti dell’uomo”, “Gli uomini primitivi” e “Il giudice Maria Rossi” e preferire scelte come: “I diritti umani”, “Le popolazioni primitive” e “La giudice Maria Rossi”. Come possiamo notare, già la semplice scelta delle parole può rendere il nostro linguaggio più gender-neutral, più inclusivo, senza doverci spingere a modifiche più sostanziali, che possono scoraggiare anche chi ha tendenze linguistiche più conservatrici. Ma è qui che iniziano i problemi, è da anni che la comunità LGBTQ sta cercando di trovare delle soluzioni per flettere o accordare sostantivi e aggettivi in modo più gender-neutral. Ecco che è uscito fuori l’asterisco(*), molto elegante…ma impossibile da pronunciare ad alta voce. Altre persone hanno proposto una flessione di sostantivi e aggettivi con la desinenza “u”: “amicu”, “benvenutu”. Un altro contributo significativo è l’uso della “Schwa (ə)”, ovvero un simbolo utilizzato in fonetica.

Prima di continuare il discorso, è necessario fare una premessa molto importante. E’ molto difficile parlare seriamente di questi tentativi di rendere l’italiano una lingua più inclusiva senza sfociare in una comunicazione tossica. Il problema non è tanto l’utilizzo “dell’asterisco”, della “u” o della “Schwa (ə)”, quanto il fatto che quando si cerca di parlare di
questo argomento, spunta fuori una conversazione estremamente tossica, dove si smette di parlare delle possibilità di rendere l’italiano una lingua veramente più inclusiva anche con l’accordo di sostantivi e aggettivi. Dal punto di vista grafico l’asterisco è abbastanza elegante e soprattutto è facile da scrivere con una tastiera in digitale, ma il vero grande problema che ci spinge a scartare l’asterisco e che non può essere pronunciato ad alta voce ed è una soluzione che può scoraggiare chi vuole dottare strategie più conservatrici. Muoviamoci verso la flessione in “u” che è, probabilmente meno garbante tra le tre, perché sembra quasi una scimmiottatura caricaturale dell’accento sardo. Inoltre, in italiano, tutte le parole che finiscono in “o”, eccezion fatta per le parole accentate e il verbo avere alla prima persona singolare, si pronunciano con la “o” chiusa che è molto simile alla “u”. Quindi, se io parlo rapidamente e dico: “Ciao amicu”, è assolutamente ambiguo, perchè può sembrare benissimo un “ciao amico”; quindi non solo è una espressione marcata, non solo è buffa per molte persone, ma è anche ambigua. La “Schwa” (ə), dal punto di vista grafico, è di grande impatto, però rischia di cadere negli stessi problemi di ambiguità della “u”.

In molti dialetti soprattutto di matrice meridionale la Schwa (ə) si utilizza già per accordare al maschile, quindi, all’orale rischia di essere frainteso e oltre ad avere difetti della “u”, la Schwa (ə) ha anche il problema di essere difficile da digitare sia con una tastiera, sia con uno smartphone e sia con una tastiera fisica. La “u” e la Schwa (ə) sono, inoltre, accomunati da un altro problema di accordo: molti aggettivi e sostantivi cambiano l’ultima consonante prima della vocale in base al proprio accordo, è il caso di “amici” e “amiche”. In questo caso, io come devo flettere la consonante? Devo dire amicu? Amichu? Amichə? O amicə? È sicuramente un punto di partenza, è un’ottima soluzione temporanea ma, secondo me, dobbiamo continuare ad alimentare il dibattito per trovare soluzioni adeguate. Penso che bisognerebbe adottare un approccio più formale ma più radicale, in altre parole bisogna ripartire dalla idea stessa di genere grammaticale e ripensarlo.

In italiano esistono due generi grammaticali maschile e femminile, ma il maschile si riferisce a qualcosa di inerentemente maschile? E il femminile si riferisce a qualcosa di inerentemente femminile? La risposta è sorprendentemente in modo molto molto raro, perché la sedia deve essere femminile e devo accordare un aggettivo femminile? (“La sedia comoda” e “Il tavolo comodo”). La verità è che il genere grammaticale è semplicemente una categoria ma non ha prerogative di genere o addirittura sessuali. Esistono lingue con generi grammaticali, ad esempio: il danese che ha due generi grammaticali ma, a differenza dell’italiano, non sono “maschile” e “femminile”, ma “neutro” e “genere comune”. E se ripensassimo i generi italiani,
rinominandoli da maschile e femminile in neutro e comune? In altre parole, perché non togliamo dall’idea di genere grammaticale italiano l’idea di una connotazione di genere o addirittura una connotazione sessuale? L’idea è quella di sciogliere una volta e per tutte dai generi grammaticali italiani dei connotati sessuali ribadendo, che il genere grammaticale altro non è che una categoria grammaticale e non ha niente a che vedere con sesso e con genere.

Ovviamente, ciò che sto proponendo non è tanto un punto di arrivo, quanto un nuovo punto di partenza, una prospettiva che secondo me bisogna tenere in considerazione di modo che  la lingua possa svilupparsi in modo più economico e in modo più funzionale anche in futuro.

Lorenzo Di Dio, V DSA