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Le origini della misoginia nel mondo occidentale. Dal mito di Pandora al Cristianesimo

 

Fin dall’inizio dei tempi, agli albori della civiltà, gli esseri umani hanno sempre inventato storie, miti e leggende per spiegare avvenimenti storici, fenomeni naturali e, talvolta, la struttura stessa della società tutta. Laddove qualcosa non poteva essere compreso in maniera razionale e laddove era necessario, per compiere determinate azioni, fare in modo che la popolazione credesse  di avere il supporto divino, nascevano quindi interpretazioni della realtà volte a spiegare le cause e le finalità degli avvenimenti presi in esame. L’analisi dei miti e delle leggende fornisce a tutti gli effetti quella che può essere definita come una vera e propria chiave di lettura della cultura che li ha partoriti. Dai miti derivano infatti le tradizioni che accompagnano la comunità per secoli e le modalità di interpretazione di ogni tipo di avvenimento e di tematica: dalla divisione della popolazione in classi sociali allo scoppio di guerre sanguinose, dalla morte all’origine stessa della vita, dai doveri degli esseri umani giusti al ruolo dell’uomo e della donna nella società.

È proprio sul ruolo della donna e, più precisamente, sulla visione della figura femminile nel mondo greco che si svilupperà questa breve trattazione. E sarà proprio attraverso l’interpretazione e l’analisi di alcuni dei tanti miti risalenti all’antica Grecia che si cercherà di fornire una chiave di lettura per comprendere come e quando, nella storia dell’uomo occidentale, il sentimento di misoginia che per secoli ha caratterizzato la società sia nato.

Il mito che rappresenta, per antonomasia, la visione della donna nel mondo greco è quello di Pandora, donna meravigliosa creata dagli dei per ordine di Zeus stesso per liberare tutti i mali degli uomini. Pandora è la prima donna a mettere piede sulla terra, essa nasce quindi come una vera e propria punizione voluta dal padre degli dei per il genere umano dopo il furto del fuoco operato da Prometeo. La donna è quindi strumento per infliggere un castigo: è Pandora stessa ad aprire il famoso vaso contenente i mali del mondo dopo  essere stata accettata come dono dal titano Epimeteo, che difetta di ingegno e non si rende conto del pericolo mortale rappresentato dalla donna. Il gesto di Pandora, spesso erroneamente interpretato come espressione di una malignità (o quantomeno di un’ingenuità sconcertante) intrinseca nel suo spirito di donna, è tuttavia da vedersi come realizzazione del fine ultimo per il quale essa era stata creata. Il “bel male”, come la definisce il poeta Esiodo, altro non è che una marionetta nelle mani di Zeus e di tutti gli altri dei, essa non è una creatura maligna, bensì il mezzo inconsapevole della realizzazione di una punizione non decisa da lei.

Nel mito -il cui intento, si ricorda, non è quello di condannare la donna, ma di spiegare le origini dei mali degli uomini- Esiodo paragona la donna ai fuchi, che mangiano il miele dell’alveare non per loro volontà, bensì perché fa parte della loro natura. Tuttavia, il poeta aggiunge anche che all’uomo che decide di non sposarsi toccherà una vecchiaia di solitudine, mentre all’uomo che decide di sposarsi può toccare in sorte una buona o una cattiva moglie. Ciò attesta quindi in maniera inequivocabile che la donna non è un essere malvagio per natura. Pandora non ha quindi alcuna colpa, agisce secondo quella che è la sua natura, non per volontà propria. Il carattere di Pandora e la sua propensione al bene o al male non vengono minimamente indagati dal poeta, a confermare quanto poco rilevanti siano per lo svolgimento della vicenda narrata e quanto poco la donna abbia a che fare con la decisione di Zeus di liberare il male nel mondo degli uomini.

Allo stesso modo, nell’Iliade (probabilmente contemporanea alla stesura delle “Opere e giorni”, in cui è narrato il mito di Pandora), Elena, bellissima moglie di Menelao, tradisce il marito per intercessione della dea Afrodite causando lo scoppio della Guerra di Troia. La donna risulta quindi ancora una volta strumento della realizzazione della volontà divina e del fato, non per sua volontà, ma perché costretta.

Si può quindi affermare che, nella mitologia greca delle origini, risulta mancare il sentimento di misoginia che sarà proprio della società occidentale nel corso dei secoli successivi. Appare chiaro, di conseguenza, che il significato del mito, volto in origine, come precedentemente esplicitato, non alla condanna della donna, ma alla ricerca dell’origine del male, sia stato travisato nel corso dei secoli fino a generare un’idea di donna malvagia e inferiore per natura rispetto all’uomo. Elena di Troia ha quindi assunto, in età classica ed ellenistica, la forma della donna infedele e traditrice; a Pandora è stata attribuita la colpa di aver volontariamente aperto il famoso vaso lasciando uscire i mali e intrappolando la speranza sul fondo; figure della mitologia successive, come Medea, moglie di Giasone e brutale assassina dei propri figli, sono diventate emblema della sconsideratezza e della malvagità femminile più che singoli personaggi negativi. Pandora, Elena e Medea non compiono quindi azioni malvagie per la loro volontà di esseri umani né per la volontà degli dei, bensì per l’indole malvagia della donna stessa.

La visione negativa della donna si è ripercossa quindi sulla società greca nella condizione di vita delle cittadine della polis, nel loro accesso all’istruzione e alla vita politica della città e nella considerazione negativa della donna della maggior parte degli autori del mondo greco, le cui opere risuoneranno nel tempo per i secoli successivi. Senza poter accedere alle alte cariche dello Stato e condannate ad una vita di segregazione e di ignoranza, le donne sono divenute presto totalmente succubi del volere degli uomini, che rappresentavano la classe dirigente.

Nel mondo romano, che largamente si ispira alla cultura ellenica, aggiungendo però un elogio di forza, coraggio e disciplina molto più ampio rispetto a quello del mondo greco, si può quindi facilmente immaginare quale fosse la considerazione della figura femminile, emblema di debolezza ed esclusa dal mondo militare e dalle cariche politiche. Laddove nel mondo greco, aperto ai piaceri e alla mondanità, la figura femminile veniva esclusa dalla vita della città per una presunta natura malvagia, nel mondo romano tale visione si aggiunge all’incapacità della donna di dimostrarsi adatta al servizio militare e alla difesa della patria. La donna assume quindi il ruolo di matrona, madre e moglie fedele in tutto e per tutto al proprio marito, incapace di prendere decisioni e di realizzarsi nella vita, capace solo di badare alla prole fino al raggiungimento dei figli di un’età tale da ricevere l’educazione del pater familias e del maestro.

Alla donna viene attribuita inoltre la colpa di deviare l’uomo dalla sua virtù e di ottenebrarne la mente con malvagità.

La principale ripercussione dell’idea greco-romana della donna da prendere in esame è quella sulle nuove professioni religiose nate dopo la fine del culto degli dei classici, per via del bisogno, diffuso nella società, di divinità che rappresentassero idee come il bene e la giustizia e che avrebbero fornito risposte agli interrogativi sulla vita dopo la morte. Tra questi culti, che spesso riprendevano la dottrina Platonica delle idee trasformando l’idea stessa del bene nella divinità oggetto di venerazione, è presente il cristianesimo, largamente diffuso in tutto l’impero romano fin dal terzo secolo d.C., la cui diffusione rappresenta la risposta ai bisogni presentemente enunciati.

Nella concezione cristiana, largamente influenzata dal mondo greco e da quello romano, la donna è responsabile di aver causato la caduta dell’uomo dal paradiso terrestre. Eva, la prima donna, avrebbe infatti convinto il primo uomo ad assaggiare una mela dall’albero della conoscenza del bene e del male, causando l’ira del Dio cristiano, che avrebbe introdotto la morte e il dolore nella vita dell’uomo che aveva peccato. Eva assaggia la mela, secondo la leggenda, indotta dal serpente, allegoria del diavolo.

Secondo quella che potrebbe invece essere un’interpretazione meno conforme alla tradizione, Eva ha sete di conoscenza, desidera sapere quale sia la differenza che intercorre tra bene e male e vuole rendere partecipe della sua scoperta anche Adamo, il suo compagno, che non oppone alcuna resistenza e si lascia facilmente convincere. In questa chiave di lettura, mai utilizzata dagli antichi, l’uomo manca quindi di forza di volontà per opporsi alla scelta della donna, o forse non desidera farlo. Risulta quindi, in seguito ad una più attenta analisi del mito, incorretto designare la donna come colpevole del peccato originale, sia perché l’uomo è colpevole esattamente allo stesso modo, sia perché di peccato non si tratta affatto.

Emerge quindi la volontà, da parte dell’ordine costituito che vigeva all’epoca della prima interpretazione di questo mito, di conformarsi alla chiave di lettura che aveva caratterizzato la visione della donna nel mondo greco e romano e di inibire qualsiasi tentativo da parte di questa di ascendere alla conoscenza, etichettandolo come peccato.

La conoscenza del bene e del male porta infatti la donna a prendere anche coscienza di se e del proprio ruolo nella società, che risulta essere fondamentale alla stregua di quello dell’uomo. Laddove allo sviluppo della cultura e dell’intelligenza della figura maschile viene infatti equiparato quello della figura femminile, nasce una società equa, in cui il potere può essere ripartito senza distinzioni tra i due generi e dove la funzione generativa della donna viene messa in secondo piano.

Tornando all’interpretazione dei miti e all’utilizzo che se ne faceva, si è sempre quindi resa fondamentale l’inibizione assoluta di ogni tentativo di acquisizione di autorità e conoscenza da parte della donna, per poter mantenere l’ordine costituito formatosi agli albori della società, basato soltanto sulla forza fisica, pertinente quindi unicamente al genere maschile. L’interpretazione travisata del mito assume quindi la funzione di stabilizzatore della società e dei suoi valori e di deterrente per qualsiasi moto volto al cambiamento della società stessa. I moti di rivoluzione avvengono infatti nel momento in cui i valori storici di giusto e di sbagliato vengono messi in dubbio e sostituiti. Nella nascita dei movimenti femministi nati nell’ultimo secolo è chiaramente visibile tale fenomeno e tale volontà di cambiamento.

Il percorso verso il raggiungimento della totale eguaglianza tra i generi è ancora lungo e tale eguaglianza può essere raggiunta solo e unicamente tramite la conoscenza del problema e delle modalità in cui i dogmi religiosi e morali sono stati utilizzati, nel corso della storia, per l’inibizione di ogni tentativo di sovversione dell’ordine sociale.

Quando tutti gli esseri umani saranno coscienti del proprio potenziale e dell’importanza del proprio ruolo nella società, miti e leggende smetteranno di avere il potere di essere sfruttati per preservare l’ordine sociale ed impedire l’acquisizione da parte di tutti gli uomini dei propri diritti fondamentali.

Simone Staiano III C