COSÌ LE SCIENZE HANNO DISTRUTTO I GRANDI MITI

Di Alessandro Cendron

Se da un lato le scienze positive hanno contribuito non poco al miglioramento delle condizioni di vita, dall’altro, con l’avanzare delle conoscenze e della ricerca, sono venuti meno, progressivamente, i miti, le credenze, le usanze, le superstizioni che hanno caratterizzato lo Spirito di molte civiltà. Il progresso, con tutte le problematiche che il termine stesso implica, nel campo della scienza ha permesso notevoli passi avanti e miglioramenti, per cui non solo, rispetto a secoli fa, si riscontra un allungamento della vita media, ma anche vi è la facoltà di poter sconfiggere alcune malattie, come il vaiolo o la malaria. Tuttavia, esso è andato a sostituire la ricchezza culturale, che oggi i testi di antropologia custodiscono, delle civiltà soprattutto del mondo antico e primitivo, laddove ogni fenomeno inspiegabile razionalmente era ricondotto a fattori soprannaturali, magici e divini.

Si pensi all’attuale pandemia, oggi pare scontato ricercare le sue cause da un punto di vista prettamente scientifico. Ciò, però, non dovrebbe far pensare che, nella storia, sia sempre stato così. Una delle opere basilari dell’antropologia culturale, ossia Il ramo d’oro di Frazer (1854-1941), mette bene in evidenza questo aspetto. Gli studi colossali condotti dall’antropologo scozzese, infatti, in due capitoli contigui intitolati “Capri espiatori pubblici” e “Capri espiatori umani nell’antichità classica” mettono in luce proprio come in un mondo ancora “non-scientificizzato” era la dimensione “simbolica” e, se si vuole usare il lessico di Dodds, “irrazionale” a prevalere. Il rimedio non stava nelle misure di isolamento, ma in pratiche rituali intrise di forti caratteri superstiziosi. Lo stesso Tucidide, nelle Storie, descrive sì in maniera scientifica e dettagliata i sintomi della peste che colpì Atene tra il 430 e il 429 a.C., ma, per quanto riguarda le cause non è in grado di fornire una risposta scientifica e razionale. Da una parte afferma che era la prima volta che compariva una malattia simile e che non c’era rimedio (“tradizionale” o “magico”) che potesse curare la malattia; dall’altra, consapevole di questa sua mancanza nell’individuazione delle cause, si limita a tratteggiarne gli effetti.

Tornando, tuttavia, a Frazer è interessante notare come, nei due capitoli sopra citati, fosse pratica parecchio diffusa, alla comparsa di malattie, caricare su una piccola barca dei cibi (come riso e uova) e lasciarla navigare per mare sospinta dai venti. La logica alla base di questa usanza è quella di allontanare quelli che l’antropologo definisce «spiriti maligni», ingraziandoseli con le provviste necessarie per il viaggio; il vento e le correnti del mare avrebbero poi trasportato le malattie verso terre lontane. Si tratta di costumi in voga in alcune isole indonesiane, come quelle di Ceram, Timor-Laut, Buru, e tra popolazioni indiane, africane, boliviane e peruviane (con la variante, per queste ultime, che a trasportare via le malattie erano incaricati degli animali in luogo delle barche). Inoltre, l’antropologo mette in evidenza come nell’antica Grecia, e nella fattispecie ad Atene, che siamo soliti molto spesso esaltare per la democrazia o la filosofia, vigeva la pratica, in tempo di malattia, di lapidare due vittime scelte da una cerchia di reietti, mantenuti dallo stato ad hoc per queste occasioni. D’altra parte, però, le scoperte e le innovazioni tecnologiche e scientifiche hanno permesso che scempi come l’ultimo citato trovassero una fine. Non si vuole, infatti, tornare ai sacrifici umani, ovviamente. Resta il fatto che, tuttavia, il dominio culturale della “Scienza” ha finito per adombrare lo spazio di immaginazione simbolica, di inventiva, religiosa e umana allo stesso tempo, che oggi, nonostante il valore culturale di tali comportamenti e superstizioni, tenderemmo a bollare semplicemente come irrazionale.