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Le carceri femminili: prima di tutto gabbie sociali – intervista

Intervista a un’educatrice presso struttura penitenziaria

 

Le donne vivono la detenzione in un contesto principalmente maschile, in un’istituzione fatta da uomini e per gli uomini. La criminalità femminile è di gran lunga inferiore rispetto a quella maschile; stessa cosa vale per il grado di pericolosità sociale femminile.

La realtà penitenziaria costituita dalle detenute in Italia assume aspetti abbastanza singolari. Secondo i più recenti dati forniti dall’amministrazione penitenziaria (provenienti dal sito del Ministero della Giustizia), su un totale di 60.125 detenuti presenti nelle carceri italiane, le donne sono 2.580, pari al 4,2% della popolazione carceraria. Su un totale di 20.309 detenuti stranieri, le donne sono 942, pari al 4,6%. Si possono notare alcune significative specificità nella distribuzione dei paesi di provenienza rispetto ai detenuti uomini. Se le popolazioni di origine straniera maggiormente rappresentate nelle carceri italiane, nel loro complesso, sono quella marocchina (18,6%), romena (13,1%), albanese (13%) e tunisina (10,8%), le donne detenute provengono invece per lo più da paesi come Romania (25%) e Nigeria (21%), seguiti a grande distanza da Bosnia (5%), Marocco (4%), Brasile e Bulgaria (3%). I reati per cui le donne sono più spesso condannate (il 12,7%) sono legati alla prostituzione (non è punito il prostituirsi, ma tutti i comportamenti ad esso correlati, come sfruttamento, favoreggiamento, atti osceni, oltraggio e resistenza). Seguono i reati in materia di stupefacenti e contro il patrimonio, contro la persona, l’amministrazione della giustizia, l’ordine pubblico e la pubblica amministrazione.
Rispetto agli uomini sono più ricorrenti i reati contro il patrimonio e quelli per violazione del Testo unico sugli stupefacenti, ma sono leggermente più frequenti anche i reati contro la persona, mentre lo sono meno quasi tutte le altre tipologie di reati.

Le detenute in Italia sono suddivise in 5 istituti penali esclusivamente femminili (Empoli, Pozzuoli, Roma-Rebibbia, Trani, Venezia-Giudecca), dove hanno sicuramente maggiori possibilità di poter condurre una vita detentiva adeguata ai loro propri specifici bisogni (anche se solo poco più di una donna su quattro vive in un carcere del tutto femminile). Nel resto d’Italia, invece, la loro detenzione è affidata a circa 55 sezioni femminili, ricavate all’interno di carceri maschili, con una media di presenza per sezione di poco superiore alle quaranta unità.

La donna vive quindi la detenzione in un contesto principalmente maschile, in un’istituzione fatta da uomini e per gli uomini. Le modalità di espiazione della pena attualmente in vigore sono le stesse per entrambi i sessi, sia per quanto riguarda la struttura, sia per le sue regole. Intervistare Valentina Finarelli, educatrice presso la struttura penitenziaria di Bologna può aiutare a comprendere punti apparentemente irrisolti.

Di cosa ti occupi? E cosa ti ha portato a fare ciò che fai?
“Sono Valentina, un’educatrice sportiva presso il carcere femminile di Bologna. Ho iniziato a conoscere questa realtà perché, durante la laurea triennale, ho fatto un tirocinio presso il carcere – affiancavo gli educatori nei colloqui con i detenuti – e quindi da lì, e dal secondo anno di università, ho intrapreso questo percorso. Dato che mi sono trovata molto bene sia con l’area educativa che con l’ambiente stesso (nonostante le difficoltà), ho proposto l’anno dopo, quindi una volta finito il mio tirocinio e la mia esperienza, di mettermi a disposizione delle donne detenute, quale allenatrice di pallavolo. Sapevo che al femminile non c’era mai stato un’attività sportiva organizzata – mentre al maschile c’è una squadra di rugby già da diversi anni, che è anche inserita in un campionato di serie C, quindi ad un livello piuttosto rilevante – e le donne non avevano mai avuto questa possibilità: poiché gioco a pallavolo da tanto tempo, mi sono proposta in quanto allenatrice. All’inizio è nata come attività di volontariato da parte mia, mentre per loro [le detenute] era un’attività ricreativa che permetteva loro di scendere all’aria insieme ed in gruppo per praticare un’attività sportiva. Poi, data la frequenza e la partecipazione, abbiamo organizzato due allenamenti a settimana, in cui un gruppo di ragazze si allenava regolarmente”.

Qual è il nome del progetto?
“Ho pensato di chiamare il progetto “Mani &fuori” poiché, pallavolisticamente parlando, «è il colpo che si dà alla palla con l’intento di colpire le mani del muro avversario, nella parte esterna, imprimendo alla palla una rotazione a uscire, facendo così punto». È un po’ come se ognuno avesse bisogno delle mani degli altri per fare il proprio punto vincente e “uscirne fuori”: è proprio su questo che credo debba improntarsi il fine del mio lavoro. Ogni detenuto ha bisogno dei propri familiari e amici, degli educatori come dei giudici, dei volontari e delle associazioni, ma soprattutto della società, per “uscire” dal proprio stato di detenzione e reinventarsi in qualcosa, ritornando alla quotidianità. E credo fortemente che anche un volontario che insegna un’attività sportiva possa fare la sua parte. Sport quindi non solo come pratica disciplinante, come trasmissione di valori e educazione alle regole, ma anche e soprattutto come strumento di valorizzazione di sé, di socializzazione e di autostima, per fornire una seconda opportunità a chi è incappato nel “cartellino giallo” che gli ha sottratto la possibilità di essere una persona libera”.

In che situazione è questa squadra adesso?
“Purtroppo è da quando è iniziata la pandemia che sono stati bloccati tutti gli interventi di volontariato e di personale esterno al carcere, e quindi io attualmente è da un anno che non entro in carcere a fare attività con le ragazze. La squadra aveva raggiunto il numero di 18 componenti; eravamo riuscite a fare anche due partite amichevoli con squadre esterne che si erano lanciate in questa attività anche loro un po’ per confrontarsi con questo ambiente. La partita è stata ricca di affiatamento e anche di tanto sano spirito di competizione. Io sto aspettando ancora che il personale penitenziario a capo dell’area educativa mi dia il permesso di rientrare. Le ragazze momentaneamente non stanno facendo attività sportiva programmata; viene data loro la possibilità di farla tra di loro con una palla nell’area esterna, dove c’è il campo da pallavolo, ma senza qualcuno che faccia far loro allenamenti strutturati”.

Per l’attività che hai svolto all’interno del carcere, ci sono stati dei criteri secondo i quali le detenute sono state scelte, o era su base volontaria?
“All’inizio era nata su base volontaria, era un’attività proposta a tutte, indipendentemente dal fine pena, lungo o breve che fosse, dall’età… Era concessa a tutte la possibilità di provare. Essendo da sola, non potevo gestire tante persone contemporaneamente, il numero massimo era 18. Successivamente, dal momento che si era strutturata un’attività sportiva vera e propria, si era creato questo gruppo squadra che alla fine era quello che frequentava regolarmente gli allenamenti. Lo consideravano un impegno costante e al quale non si sottraevano mai, era ogni lunedì e martedì dalle 15:30 alle 17:30, il nostro appuntamento fisso. Formatasi la squadra avevamo anche stampato le maglie e le divise da gioco, abbiamo fatto l’amichevole con i nomi e i numeri. Per loro era un segno di riconoscimento, c’era un senso di identità molto più alto, era qualcosa che a loro in altre situazioni forse non era stato dato. Erano parte di un gruppo, di una squadra, e questo le faceva stare bene”.
L’età media delle donne che partecipavano a questa attività qual era?
“La più giovane aveva 27 anni quando avevo iniziato; la più grande, invece, 55. All’inizio c’era anche una donna molto anziana che era venuta a provare, aveva quasi una settantina d’anni, ma, avendo il fine pena imminente, poco dopo è uscita. Le altre avevano un’età mediamente compresa tra i 35 e i 40 anni”.

Di queste 18 ragazze alcune erano straniere?
“La maggior parte delle ragazze che venivano a fare attività con me in realtà erano italiane; alcune però sì, erano straniere: africane, marocchine, nord africane per la maggior parte; altre provenivano dall’est. Tutte comunque riuscivano, bene o male, a parlare italiano. Le “vecchie” della squadra, ovvero quelle che partecipavano da più tempo all’attività, e che quindi avevano un fine pena un po’ più lungo, erano tutte italiane”.

Per quanto riguarda le donne straniere, per l’esperienza che ne hai avuto, hanno riscontrato un’ulteriore difficoltà data magari a trovarsi in un paese che non fosse il loro? Nonostante parlassero italiano avevano anche problemi a livello di comunicazione?
“Alcune sì, infatti i colloqui con l’educatore o altre figure all’interno del carcere erano sempre conciliati da un mediatore culturale, che potesse spiegare meglio loro alcune dinamiche. Soprattutto perché per le donne straniere era molto difficile, spesse volte, comprendere esattamente tutta la legislazione carceraria, che cosa significassero alcuni termini tecnici. I mediatori facevano un ottimo lavoro, per alcune donne erano davvero fondamentali, poiché, per chi si trova in questa situazione è difficile persino comprendere le regole che scandiscono una giornata tipo. Inoltre anche il fatto di essere in un altro paese, con i famigliari lontani – di questo sicuramente ne risentivano – rendeva loro più difficile esternare quello che sentivano o fare richieste perché non avevano tanti punti di riferimento sul territorio. Poi, una volta raggiunto il fine pena, era difficile trovare un posto in cui mandarle perché non avevano appigli sul territorio, era proprio difficile pensare a un “dopo” per loro. Molte pensavano infatti di tornare subito in patria una volta libere”.
Prima di intraprendere questa attività avevi dei pregiudizi nei confronti della detenzione in generale?
“All’inizio, più che pregiudizi avevo un po’ timore. Noi, soprattutto in Italia, siamo abituati a sentire o a sentir parlare della detenzione in modo molto pessimistico, quindi spesso si dice “Meglio buttare via la chiave” piuttosto che “La rieducazione in Italia non funziona”, “Non esiste rieducare una persona che ha commesso un reato” e perciò all’inizio l’idea di entrare in una condizione così difficile, in un luogo così difficile, un po’ mi spaventava. Però quello che mi ero prefissata era che avrei voluto prima conoscere la persona piuttosto che il reato che aveva commesso, perché altrimenti mi sarei sicuramente fatta dei pregiudizi o quant’altro. Chiaramente, quando ho fatto tirocinio era diverso perché, prima di andare al colloquio con il detenuto, gli educatori mi raccontavano la loro storia, perché fossero finiti dentro. Mentre nel momento in cui ho cominciato l’attività pallavolistica, quello che mi ero prefissata era proprio “Io conosco le ragazze per quello che sono, poi se vorranno raccontarmi del reato commesso, se salterà fuori il discorso, bene, accetterò di parlare e di dar loro consigli”, però non volevo focalizzare la conoscenza su quello perché sennò mi sarei fatta dei pregiudizi o comunque dei preconcetti su di loro”.

Quindi, nel momento in cui ti sei ritrovata a conversare con loro, hai avuto modo anche di stringere una conoscenza un po’ più approfondita, al di là dell’attività che svolgevi con loro? Nel caso fosse successo, alcune di loro si sono aperte nel dire perché si trovassero in carcere?
“All’inizio è stato difficile, ero comunque una persona esterna, estranea, più giovane di loro, perché comunque quando ho iniziato, 4 anni fa, avevo 21 anni, e la più giovane ne aveva 27. Vedere una ragazza che si improvvisasse come allenatrice di pallavolo le rendeva un po’ restie, le conversazioni erano molto generiche. Ma, col tempo (alcune le conosco da quando ho iniziato) si sono creati dei bei rapporti basati anche sulla fiducia e soprattutto di stima reciproca. Alcune di loro si sono quindi aperte con me e mi raccontavano le loro preoccupazioni, relative ai famigliari, piuttosto che al fine pena, o, prima di scendere a fare attività con me, avevano avuto un colloquio o una telefonata con i famigliari, io notavo che erano tristi oppure molto entusiaste, e quindi chiedevo loro e mi raccontavano. C’era quindi un rapporto la cui base era una conoscenza reale ma soprattutto dialogo vero e proprio. Di questo sono contenta perché per loro era molto difficile conversare o esternare le loro preoccupazioni o altro, e con me si sentivano un po’ più libere di farlo perché da parte mia c’era disponibilità al dialogo ed ero disposta a parlare di tutto con loro. Sicuramente ho notato che c’era una certa affinità relativa al fatto che, essendo donne, si percepiva anche il desiderio di raccontare qualcos’altro ad un’altra donna e quindi anche, per esempio, le difficoltà relative alla cura della persona, oppure l’aspetto relativo ai famigliari; si sentivano più comprese rispetto magari ad una conversazione con un uomo”.

Altre, al contrario dell’apertura che c’è stata da queste detenute, erano più orgogliose, non desideravano essere aiutate?
“Purtroppo sì, alcune avevano un carattere più chiuso e riservato, specie magari le ragazze straniere, perché, sebbene capissero l’italiano, avevano alcune difficoltà nel parlarlo e ad interagire. Mi è capitato pochissime volte di dover parlare inglese, ma generalmente tutte riuscivano a dialogare in italiano. Alcune magari avevano avuto una vita talmente difficile che facevano fatica ad esternare i propri problemi, nonostante l’attività sportiva le rendesse un po’ più libere di esprimersi”.
Alcune di loro suppongo che fossero verso la fine della pena. Cosa provavano al pensiero di essere scarcerate di lì a poco?
“In questi anni, tra le ragazze che ho allenato, ne ho viste molte raggiungere il fine pena. Ho anche potuto constatare la loro felicità imminente nei giorni prima della scarcerazione. Contano i giorni, ci sono alcune che hanno il calendario e segnano quanti giorni mancano alla fine. Era sicuramente una grande gioia per loro arrivare al fine pena, anche una gioia condividerlo con le compagne di sezione o di cella; succede spesso che quando una ragazza esce, tutte le altre vadano a salutarla, proprio come un rito per termine di detenzione. Magari sentivamo dalla sezione, poiché alcune finestre sono disposte sul campo, che, una volta appresa la notizia dell’imminente uscita di una, le altre ci tenessero a salutarla; era sempre emozionante, chiaramente mi dispiaceva non vederle più sul campo da gioco ma ero contenta che avessero finito il loro percorso”.

Ti è capitato di incontrare fuori una di queste donne?
“Sì, mi è capitato di incontrare una ragazza l’anno scorso, quando sono andata all’Eurocamp di Cesenatico con la comunità di minori. Stavamo giocando a pallavolo con i ragazzi nel campo di fronte, quando ho visto questa ragazza che mi si avvicinava e, improvvisamente mi sono illuminata, la riconoscevo. Era una ragazza che giocava a pallavolo con me in carcere circa due anni fa ed è stato bellissimo rivedersi in un luogo simile a quello in cui ci siamo incontrate per la prima volta. Ora lei è in una comunità per tossicodipendenti, quindi sta finendo la sua pena lì in misura alternativa. Noi eravamo lì con i ragazzi e quindi è stato stranissimo rivedersi in quel contesto, sempre legato alla pallavolo; l’ho vista carica anche emotivamente, pronta ad intraprendere un percorso che l’avrebbe portata a riprendere in mano la sua vita”.

Coloro che hanno figli, come percepivano questa lontananza? Come e in quali modalità avevano la possibilità di avere un colloquio?
“Quelle che avevano figli erano poi quelle che facevano poi più fatica ad esternare le difficoltà o parlarle esattamente di figli e di cosa facessero e sentissero. Chi ha figli piccoli ha più possibilità di colloquio, piuttosto che ricevere lettere, scambiarsi messaggi. Tutto dipende dalle persone e dalle pene loro imposte; generalmente possono incontrare i famigliari una volta a settimana, per circa un paio d’ore, e le telefonate vanno dalle 2 alle 3 volte alla settimana. Erano tutte scaglionate chiaramente, però c’era un giorno adibito alle visite, di cui si può scegliere di usufruire o meno. Dipende però dai bracci; adesso al femminile ci sono due sezioni, braccio A e braccio B, e le donne sono divise in definitivi, cioè detenute che hanno la pena già decisa e già passata al terzo grado di giudizio, e invece le non definitive, che hanno le condanne pendenti o che non hanno ancora raggiunto la sentenza di condanna ultima. E quindi, in base a questi due bracci, le giornate venivano prestabilite. Anche l’ora d’aria funzionava nella stessa maniera, in modo tale che non si incontrassero tra di loro. Le telefonate avvengono con un telefono della struttura: i detenuti hanno una sim sulla quale caricano dei soldi e possono fare un certo numero di telefonate alla settimana, dalle 2 alle 3 volte alla settimana”.

L’istituzione dà una prospettiva lavorativa a queste donne? Per loro quanto è importante avere un’occupazione?
“Il lavoro è l’attività maggiormente richiesta, primariamente per occupare il tempo, e inoltre perché il lavoro è retribuito all’interno del carcere. I lavori che ci sono attualmente sono quelli relativi alla sezione: pulire i pavimenti, fare la spesa; c’è una persona che va di cella in cella a chiedere ad ogni detenuta cosa le serva (ognuna di loro ha i propri soldi, gestiti dall’amministrazione penitenziaria); questa addetta raccoglie tutte le richieste in una lista e la invia al personale che si occupa di comprare il necessario che poi viene distribuito dall’addetta stessa. Ci sono anche i turni relativi alla cucina: nessuno cucina per loro ma sono turnanti, anche perché in questo modo lo fanno un po’ tutte, e così tutte riescono ad avere un lavoro garantito all’interno. C’è anche un’attività legata alla sartoria, uno spazio in cui creano borse. Chiaramente spesso nascono delle controversie su queste attività, collegate al fatto che spesso le detenute devono aspettare molto prima di tornare a lavorare. Molte mettono da parte il denaro per inviarlo ai parenti quindi chi rimane per tanto tempo senza lavoro, cosa difficile ma che a volte è capitata, ne risente. C’è anche una sorta di orto in cui le ragazze coltivano piante, si dedicano al giardinaggio, e anche questa è un’attività retribuita. Il lavoro è tanto importante e tanto richiesto perché è ciò che più le tiene impegnate durante la giornata, evitando magari momenti morti che acuiscono l’insofferenza”.

E quindi queste attività danno loro una prospettiva per l’esterno?
“Quelle inerenti alla sezione non le arricchivano particolarmente, molte di loro magari avevano avuto esperienza di pulizie e avevano esperienze all’esterno. Mentre invece magari anche a livello di cucina, ristorazione, alcune si propongono di fare questi lavori proprio per avere un aggancio all’esterno, per poterlo praticare un volte uscite. Ugualmente avviene per la sartoria, alcune che hanno imparato in carcere a cucire, a fare borse o riparare vestiti: era una speranza in più per quando sarebbero uscite. Chiaramente rispetto al contesto maschile, i cui numeri di detenuti sono molto più alti, ci sono molte e più variegate attività lavorative proposte, a differenza della sezione femminile che, ospitando poche detenute, ha un minor ventaglio di scelta. Le ragazze risentono molto di questa disuguaglianza di genere”.

È interessante notare che questo divario che c’è all’esterno si accentui in contesti di questo genere.
“Assolutamente. Molte di loro sono a conoscenza di questa situazione perché hanno magari fidanzati al maschile, e quindi, sentendosi fra di loro, si rendono conto che l’uomo fa determinate tipi di attività e a loro invece viene proposto molto meno, quindi alcune volte si lamentano anche di questo. Se ci fossero opportunità in più, probabilmente una volta uscite avrebbero anche più possibilità di riscattarsi o comunque di reinventarsi in un’altra vita”.

L’istituzione tiene conto dei bisogni delle detenute? O la situazione è piuttosto blanda?
“Si cerca sempre di tener conto dei bisogni, dei diritti soprattutto, e dei doveri delle detenute, cercando di andare, per quanto possibile, sempre incontro alle loro esigenze. Se sono definitive, tutte le detenute hanno un educatore di riferimento che si occupa del loro percorso individualizzato: si tratta quindi di trovare un lavoro, piuttosto che trovare un’attività che sia consona per il loro percorso, mantenere dei rapporti con l’esterno, fare dei colloqui di aggiornamento per sapere ogni 6 mesi come stia andando; fanno da tramite per le loro richieste all’approvazione del magistrato, perché tutto deve essere approvato dal magistrato di sorveglianza, quindi se appunto la detenuta ha una richiesta, questa passa attraverso l’educatore, ammesso che ritenga che sia consona per la detenuta, e poi la inoltra al magistrato che, valutandola, deciderà se accoglierla o meno. Generalmente, comunque, si tende ad andare incontro ad ogni esigenza, in particolar modo perché, essendo donne, in alcune situazioni hanno anche più difficoltà, rispetto agli uomini, a stare recluse, o anche solo curarsi di meno, e quindi dar meno importanza alla persona. Certe volte vengono attuate delle attività anche in relazione a questo: sono stati fatti dei progetti per aiutarle alla cura della persona, mantenersi “donne” nonostante il contesto privativo assoluto. Vengono aiutate perché gli si dà modo di esprimersi, questo credo sia importante”.

Se magari alcune di loro hanno delle inclinazioni o delle passioni, è dato loro modo di dare sfogo a queste passioni?
“C’è stato un percorso con un’arte terapeuta anni fa, e quindi avevano avuto modo di esprimersi attraverso il disegno, la pittura. Se invece hanno altre proposte, possono “fare domandina”, come si dice in carcere: è un foglietto che viene compilato in cui la detenuta in questione scrive “Io sottoscritta nome e cognome, richiedo all’amministrazione penitenziaria (o alla direttrice) di poter attivare un corso di…”. Se la direttrice trova la persona giusta, che può affiancarle in questa cosa, è bene disposta ad accoglierla. Nel caso si trovasse troppe richieste sarebbe costretta a scegliere un’attività che accomuni tutti. Però sì, sono state fatti dei corsi sia manuali, sia d’espressione: è stato fatto un laboratorio video, alcune frequentavano lezioni di canto, altre ancora teatro… Quindi sì, hanno molte possibilità per potersi esprimere”.

Secondo te quali aspetti si potrebbero migliorare delle carceri femminili e delle condizioni delle loro detenute?
“Secondo me si dovrebbero ristabilire un po’ i pari diritti: dato che appunto molte carceri femminili non nascono prettamente femminili, ma nascono perché sezioni ricavate da carceri maschili, è sempre come se la donna si sentisse un’entità a parte rispetto alla figura maschile, che è quella predominante. Ci sono quindi meno attività, meno proposte, meno iniziative, e quindi già la donna si sente in una situazione di privazione, che è quella detentiva, in più si sente privata dal punto di vista dei diritti; quindi sicuramente quello che si potrebbe fare sarebbe quello di ristabilire i diritti e i doveri soprattutto delle donne detenute. Come si tiene conto di quelli degli uomini, è giusto proporre lo stesso tipo di attività anche alle donne, perché una volta raggiunto il fine pena comunque dovranno ricominciare da dove avevano lasciato oppure partire con una nuova vita; se non hanno le stesse possibilità degli uomini per loro è ancora più difficile, soprattutto al giorno d’oggi. Un altro problema è anche la condizione di vita detentiva: per l’uomo è più “facile” a livello della persona, della cura, è più agevolato; l’uomo ha meno bisogno di sentirsi “bello”. La donna, invece, anche in quel contesto ci prova: io lo vedo anche quando fanno i colloqui con i famigliari, si fanno belle, si mettono il vestito migliore che hanno, si truccano un po’… Perché vogliono valorizzarsi, ed è giusto anche che lo facciano. Una maggiore attenzione alla cura e all’essere donne, per farle sentire più a loro agio. Quando io avevo proposto l’attività di pallavolo per loro era proprio una novità, perché non avevano mai fatto attività sportiva, e mai era stato proposto, e di questo si lamentavano, percepivano questa situazione di inferiorità, questo doppio standard che veniva applicato loro. Anche per loro era importante mantenersi in forma, soprattutto in un ambiente in cui faticavano sia a mantenersi in forma che a piacersi. Avere un riscontro così positivo mi ha fatto molto piacere, perché era anche una scoperta di talenti che magari fino a quel momento loro nemmeno sapevano di avere”.

Si investe nel settore delle carceri femminili?
“Secondo me non come si potrebbe. Ma forse perché a livello statistico di numeri, le donne che delinquono sono talmente meno rispetto agli uomini che quindi si tende ad investire prettamente sulla sfera maschile. Sulle donne si investe poco e forse, anche a livello nazionale, male: non si dà molto adito, in generale, ai loro bisogni; spesso si dice che sono un numero tanto inferiore che si cerca di fare il giusto ma non ci si spinge mai oltre. Secondo me l’Italia potrebbe fare molto di più rispetto a quello che sta facendo attualmente per le donne, quanto meno per farle sentire uguali agli uomini nella loro stessa condizione”.

Qual è lo stereotipo maggiore che magari, confrontandoti con conoscenti, hai riscontrato verso i luoghi di detenzione? Se ne hai riscontrati, ovviamente.
“Io ne ho riscontrati tanti, anche perché da quando ho iniziato a fare il tirocinio, tante persone mi hanno chiesto perché lo facessi nonostante i detenuti avessero commesso dei reati, come facessi a rapportarmi con chi ha compiuto un omicidio, secondo loro erano persone da rinchiudere lì per sempre. Spesso mi sono sentita dire da persone che conosco, anche solo “Come fai a rapportarti con loro?”. Io devo dire che sì, all’inizio probabilmente anche io avevo queste difficoltà nel mettermi a nudo di fronte a questo ambiente così duro come il carcere, però quello che ho sempre cercato di riportare è che comunque hai a che fare con persone; sono certamente persone che hanno commesso degli errori, ma sono persone che stanno pagando per quello che hanno fatto. Credo che il perdono, il dare una seconda possibilità a una persona non si devano negare a nessuno. È lo stesso motivo per cui io non volevo conoscere, dapprima, i reati che avevano commesso in modo da rapportarmi solo con la persona, conoscendo prima di tutto la persona e non etichettarla solo con il reato che aveva commesso. Però tutt’ora è molto difficile anche spiegare, raccontare quello che faccio, perché al giorno d’oggi, e in Italia soprattutto, si tende spesso a denigrare le persone che commettono un reato criticandone qualsiasi aspetto, anche quelli che non dipendono da loro. Io credo che finché non si conosce la persona o le situazioni che l’hanno portata a delinquere, non si possano esprimere giudizi. Chiaramente non li voglio giustificare, ma ci sono situazioni nella vita che portano a fare determinate decisioni, e quindi non mi sono mai sentita di giudicare perché io, in prima persona, non ci sono passata e non so come mi sarei comportata io in quella specifica situazione. È quindi sempre un po’ difficile porsi come mediatore con chi pensa che sarebbe il caso di chiudere tutto e lasciarli lì. Si cerca di far capire che i detenuti non sono tutti uguali e che non bisogna etichettarli per degli errori che hanno commesso”.

Hai avuto quindi la possibilità di far cambiare idea ad alcune persone?
“Alle persone che mi stanno più vicino, i miei famigliari e i miei amici più stretti, che sanno quello che faccio e vedono la passione che metto in quello che faccio, non dico che ho fatto loro cambiare idea, ma comunque li ho avvicinati a questa realtà così difficile. Raccontando alcune storie, alcune sensazioni, alcuni pensieri e problemi che mi vengono riportate da queste persone detenute, capiscono perché io ci tenga così tanto a creare legami o un qualche tipo di relazione con queste persone. Quindi sì, alcune hanno un po’ cambiato la visione o sono un po’ più disponibili, interessante a questo mondo di cui faccio parte”.
A loro cosa manca di più dell’esterno, oltre agli affetti? Cosa, che magari noi che possiamo vivere la nostra vita liberamente, diamo per scontato, ma che per chi si trova nell’ambiente carcerario non lo è?
“A me è capitato una volta di parlare con una ragazza e lei mi disse che ciò che le mancava di più della vita quotidiana erano le piccole cose. Anche solo bere un caffè al bar, vedersi con un’amica e fare una passeggiata all’ aperto, il tornare a casa la sera stanchi dal lavoro; la quotidianità che abbiamo noi e che io per prima davo per scontato. Spesso mi è capitato di chiedere “Se dovessi uscire domani, cosa faresti?”, molte di loro mi rispondevano “La prima cosa che faccio è andare al bar a bermi un caffè con calma al tavolino, mi fumo una sigaretta, mi godo il sole e mi rilasso”. Io pensavo mi avrebbero parlato di viaggi, vacanze, feste con amici. Invece no, alla fine era solo quotidiano. Desideravano anche vedere come fosse cambiata la realtà nel corso del tempo. Alcune ragazze che ho conosciuto erano dentro anche da 4 o 5 anni; una di loro mi ha detto: “L’altro giorno sono andata all’udienza [in tribunale, quindi al di fuori del carcere] e ho visto la gente che aveva il telefono di nuova generazione, una cosa così non l’avevo mai vista!”. È proprio una riscoperta del mondo, perché è come se vivessero sospese in una realtà parallela, e quindi vedere le persone che utilizzavano le cuffie senza i fili era una sorpresa; per noi è la normalità, mentre per loro era molto strano, e avevano questo desiderio di uscire e di vedere come le cose fossero cambiate da quando erano entrate. Fa anche sorridere perché alcune avevano anche il timore di non saper utilizzare i cellulari di nuova generazione, si stupivano venendo a sapere del delivery food”.

Se ne hai avuto modo di parlare, le detenute pensavano che fosse giusto il fatto che si trovassero in carcere oppure no?
“Alcune hanno riconosciuto di aver fatto degli errori e si sono anche ritenute colpevoli, erano quindi consapevoli di dover pagare per i propri reati. Altre invece spesse volte si sono lamentate della situazione dicendo cose del tipo” Io sono finita dentro perché mi hanno messo in mezzo, questa cosa non è giusta, hanno fatto il mio nome, anche se io c’ero non c’entravo… “. Era un pensiero molto ricorrente”.

Alcune hanno mai pensato all’idea di evadere?
“[Ride]. Le ragazze che frequentavo non me ne hanno mai parlato, probabilmente perché dato il mio ruolo, non ero esattamente la persona adatta. Però è capito che magari, parlando con alcune, esternassero il fatto che non vedessero l’ora di uscire. Non ho mai sentito nessuna di loro che pianificasse o parlasse con altre di una fuga”.

Secondo te c’è un aspetto positivo della detenzione?
“Secondo me il lato positivo è che loro, anche in quel contesto, sono messe a confronto con altre persone. Questo è positivo perché, quando qualcuno commette un reato, si dice che è bene privarlo della sua libertà, metterlo in un luogo in cui possa ripensare agli errori commessi. Però è giusto, secondo me, che siano a confronto con altre persone, storie e realtà, perché conoscendo queste cose possono aiutarsi a vicenda. L’aspetto relazionale è quindi una cosa molto positiva secondo me; è stato soprattutto incentivato da quando c’è la sorveglianza dinamica, per cui le celle sono aperte tutto il giorno e le detenute possono stare all’interno della propria sezione senza essere costrette a rimanere nella propria cella, stando quindi nei corridoi. In questo modo hanno più “libertà” di confrontarsi e di relazionarsi con le altre. Non bisogna tralasciare che però a volte da questo contatto possono nascere conflitti, anche d’interesse, però è un ambiente in cui è chiaro che si creino queste dinamiche, con tante persone tanto diverse nello stesso posto”.

Cosa diresti alle persone che dicono “I carcerati fanno la bella vita, hanno la TV e se la spassano, alla fine devono “solo” stare in cella”?
“A me è stato detto molte volte, perché quando raccontavo che i detenuti in stanza hanno la TV, il fornelletto per cucinarsi qualcosa, il bagno… Mi veniva detto che avevano una “stanza d’hotel”. Io cerco di ricordare a queste persone che il carcere è una realtà privativa, io non auguro a nessuno di dover stare per un determinato lasso di tempo sempre nello stesso posto, con sempre le stesse persone, con la solita routine tutti i giorni. Tutti i giorni sono uguali, a volte i detenuti sono completamente alienati, perdono la cognizione del tempo. L’intera giornata è scandita: la sveglia è sempre alla stessa ora, la colazione è sempre alla stessa ora, dalle 8:00 alle 12:00 chi è di turno lavora, poi il pranzo, poi i colloqui, l’ora d’aria… È una vita talmente scandita dagli stessi ritmi che è anche difficile dire “Beati loro, stanno bene”. Io nella loro situazione non so se me la caverei “bene” come molti pensano. La TV è solo una modalità di intrattenimento, di compagnia; non è che se hanno la TV possano fare chissà cosa. Nel pensiero comune è diffuso che i carcerati godano di privilegi. Purtroppo finché non ci si ritrova in una determinata situazione è molto facile parlare. Non si può vedere chi si vuole quando lo si vuole, sentire chi si desidera nel momento in cui lo si desidera. È anche tanto difficile prendere solo la boccata d’aria: tutto è deciso da qualcun altro. Non è solo stare rinchiusi, ma anche avere un’esistenza organizzata e disposta da terzi, non hai più libertà personale, non decidi più per te stesso. Poi magari in altri Paesi la situazione detentiva è molto più grave, e sicuramente in Italia ci saranno contesti più privilegiati di altri, ma non penso poi così tanto”.

Qual è un’aspetto difficile del tuo lavoro?
“È difficile secondo me cercare di “staccare” quando si torna a casa. È bene che l’impiego, l’aspetto di relazione con le detenute rimanga all’interno dell’ambito lavorativo. Molto spesso è difficile perché le loro storie, i loro racconti, le loro emozioni si imprimono dentro di noi, magari ci si pensa anche una volta finito l’allenamento, cercando una soluzione per un problema, anche minimo magari, che le angustia. Se ti chiedono un favore ti domandi se tu possa farlo o meno, è molto più difficile che empatizzare: tramite la pallavolo, sport che amo, è stato molto naturale cercare e improntare una relazione con loro. È più difficile cercare di scindere la mente dal luogo, in modo che la loro vita non influenzi irrimediabilmente la mia”.

È capitato che alcune donne si approfittassero della tua disponibilità?
“No, questa cosa non mi è mai capitata e ne sono molto contenta, anche perché all’inizio il timore era che essendo la più giovane, si creassero dei complessi di inferiorità nei miei confronti. Questa situazione invece c’è non si è mai riscontrata. Anzi, hanno sempre mantenuto un rispetto, reciproco anche, e quello è stato molto bello, soprattutto per me perché mi permetteva di fare il mio lavoro nel modo giusto, ponendole tutte sullo stesso piano e cercando di aiutarle come potevo. Nessuna mi ha mai offeso o mancato di rispetto. Chiaramente ci sono state delle situazioni di tensione tra di loro, in cui io sono dovuta intervenire e ho dovuto chiamare gli agenti, ma non mi sono mai sentita a disagio o in pericolo. Io ero sola con loro, senza agenti, ed effettivamente poteva accadere di tutto, ma niente di tutto questo è mai avvenuto”.

Cogliendo l’occasione, tramite questa intervista, per mandare un messaggio a chi legge, quale sarebbe?
“Credo che rispetto a tutto quello che ho fatto, al percorso che ho intrapreso, è importante che passi il concetto del dare voce alle persone che sono considerati emarginate dalla società. È importante ricordare sempre che sono comunque persone che hanno avuto delle difficoltà nella vita e che vanno aiutate, perché prima o poi torneranno nella realtà che tutti noi viviamo. Torneranno ad avere una vita normale, e se non si prova ad insegnare loro qualcosa, se non gli si va incontro, non si dà loro modo di dar voce ai loro bisogni, ai loro interessi, alle loro passioni, sarà sempre più difficile per loro reintegrarsi. Quindi evitiamo di giudicare prima di conoscere, anche se riguardo questo ambiente è molto facile cedere ai preconcetti, ed etichettare una persona per degli errori che ha commesso”.

 

Intervista a cura di Ilde Albini