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Migliaia di lavoratrici domestiche libanesi buttate per strada dai loro datori di lavoro

Il Libano dal 2019 sta subendo una gravissima crisi economica, a causa di questa recessione le fasce più deboli della popolazione si trovano in grande difficoltà, tra cui le domestiche, circa 250.000, per lo più Etiopi ma anche di etnie orientali. Queste donne che lavorano nelle famiglie libanesi occupandosi di bambini, anziani e della casa, sono state lasciate dai loro datori di lavoro, chiamati “sponsor”, davanti al loro consolato senza soldi, documenti e a volte anche senza i propri beni personali, rendendo in questo modo impossibile una qualsiasi via di rimpatrio. Il consolato non si prende carico di queste situazioni, con il risultato di lasciare queste donne a “doversi arrangiare” da sole, in un mondo che gli è più che ostile; in questa contingenza sono poche le associazioni che offrono rifugio.

La situazione ha preso questa deriva a seguito della grande inflazione che ha subito il Libano, se prima della crisi il salario minimo di 675.000 lire libanesi corrispondeva a 450 $, è arrivato a valere solamente 75 $ mensili. La maggior parte di queste donne mandava l’intero salario ai familiari, ritrovandosi così completamente sprovvedute nel momento dell’emergenza, con l’avvento della crisi, inoltre, molte non erano più state pagate per mesi.

Tutto ciò è reso possibile dal sistema delle “kafala”, un insieme di leggi, politiche, pratiche e consuetudini che caratterizzano la gestione e il soggiorno della manodopera straniera. Il rapporto di potere tra lavoratrice e datore di lavoro è completamente sbilanciato, infatti quest’ultimo ha il completo controllo della possibilità di recedere il contratto, rinnovarlo, permettere di cambiare datore di lavoro, e far lasciare il paese; inoltre la legge libanese che tratta i diritti dei lavoratori non include la professione della domestica, lasciando questo settore completamente in balia del datore di lavoro, non c’è stipendio minimo ne è concessa la creazione di sindacati.

Per molte donne, la casa dove vivono diventa un carcere. Sono costrette a lavorare per più delle otto ore, concordate nel contratto (definito dai datori di lavoro niente altro che un foglio di carta con nessuna valenza), senza pause, senza giorni di riposo. Viene sequestrato il passaporto, vengono chiuse a chiave in casa, ad alcune viene impedito qualsiasi forma di comunicazione con l’esterno. Non vengono pagate per mesi. Dormono su un divano, sul terrazzo, o per terra. Non vengono forniti abbastanza cibo o acqua, ed è negato l’accesso alle cure mediche. A peggiorare questa condizione disumana spesso si trovano a subire violenze verbali, fisiche, o sessuali, da parte della madame (moglie dello sponsor), del marito, di altri nella famiglia, o addirittura da chi lavora per l’agenzia di reclutamento che le ha portate in Libano. Un datore di lavoro ha letteralmente messo in vendita per 1.000 $ la sua lavoratrice domestica in un gruppo di Facebook. Il sistema della kafala non offre una via di uscita. Le lavoratrici che decidono di lasciare, o scappare, dalla casa dove lavorano diventano irregolari, e rischiano la detenzione e la deportazione.

Queste condizioni portano non solo ad un grande disagio fisico, ma anche mentale; sono state stimate due morti a settimana tra le lavoratrici domestiche, registrate per la maggior parte come suicidi o tentativi di fuga falliti.

A questo punto mi domando qual’è la differenza tra questa vita e la condizione di schiavitù, c’è un limite a ciò su cui il governo può chiudere un occhio. Come si può credere nella giustizia e nella legalità quando chi la rappresenta e dovrebbe difenderla non è minimamente interessato a farla rispettare?

 

A cura di Nina De Blasi

 

 

 

Fonte immagine https://www.internazionale.it/notizie/julie-kebbi/2020/12/29/libano-lavoratrici-domestiche