La gioia del donare, intervista a una volontaria

Di Maia Bordin e Maddalena Merlo

Intervista a M. M., una signora di Montebelluna, un paese della provincia di Treviso, che è stata infermiera e tecnica di radiologia, volontaria in una missione in Kenya, a Loreto e a Lourdes.

“Per sentirmi bene con me stessa devo dare qualcosa agli altri!” Questo è ciò che M. M., una signora di 87 anni, vissuta durante la Seconda Guerra Mondiale, ha riferito durante l’intervista. M. nel corso della sua vita ha sempre messo il benessere degli altri al primo posto, talvolta anche sacrificando sé stessa, ed è un esempio di come la passione per ciò che si ama fare può vincere su tutto e valere più di ogni cosa.

Come ha vissuto i suoi primi anni di vita e la sua giovinezza?

M. ha detto che purtroppo la sua infanzia è stata molto triste perché c’era la guerra: la paura dei bombardamenti era elevata proprio perché essi erano frequenti. Ma la cosa che ricorda meglio è la mancanza di cibo e di aver desiderato moltissimo anche un semplice pezzo di pane.

 Com’era la situazione nel paese in cui abitava?

Nel suo paese c’erano molti operai che lavoravano in un canapificio e non c’erano molti contadini. Nel periodo della guerra il problema maggiore era la carestia, c’era mancanza di cibo e venivano dati dei bollini ad ogni famiglia per poter prendere ogni giorno almeno una piccola pagnotta di pane a testa. Nella famiglia di M. erano in quattro: sua mamma, suo papà, la sua sorella minore e lei. Si ricorda bene che spesso ha dovuto rinunciare alla sua razione di pane perché sua sorella era più piccola e ne aveva più bisogno. Inoltre, mancavano anche la farina e la polenta. Molte persone, tra cui la mamma di M., scambiavano gli oggetti d’oro che possedevano con la farina per fare la polenta.

Successivamente, prima della liberazione da parte degli americani, quando M. aveva undici anni, essi avevano bombardato il ponte di Vidor e lei, sua mamma e sua sorella si erano nascoste nei sotterranei della chiesa di Crocetta del Montello, paesino in provincia di Treviso. Di sera erano soliti coprire le finestre con una coperta nera perché ogni giorno un aereo chiamato Pippo passava e, se avesse visto delle luci, avrebbe bombardato quella zona.

 Quale percorso scolastico ha intrapreso e cosa l’ha portata a diventare infermiera?

M. ha fatto ragioneria e dopo la scuola ha lavorato per un po’ come impiegata in un ufficio. Poi però ha deciso di cambiare completamente e di andare a fare la scuola di infermiera professionale all’Ospedale Niguarda di Milano, che è durata tre anni. “Volevo essere utile agli altri” ha detto. Dopo aver lavorato per parecchi anni come infermiera professionale, ha deciso di specializzarsi in radiologia e così poi ha lavorato come tecnica di questa disciplina.

 Può raccontare qualcosa delle sue esperienze che ha vissuto partecipando a diverse conferenze in tutta Italia e lavorando in Sicilia?

M. ha fatto un concorso nazionale per infermiera professionale e dopo averlo vinto è stata trasferita a Catania, dove aveva anche alcuni amici, poiché a Treviso non c’erano posti di lavoro. A Catania le è stata data la possibilità di prendere il diploma come tecnica di radiologia, percorso durato sempre tre anni.

 Cosa l’ha spinta ad intraprendere il suo viaggio missionario in Kenya?

 Nel 1990 è andata in Kenya per circa un mese come volontaria con un gruppo di ragazzi emiliani. Aveva uno scopo: voleva conoscere come vivevano le persone autoctone e qual era la situazione dei villaggi in quei luoghi. Per esempio, scoprì che le bambine venivano mandate a scuola come se frequentassero un collegio. Per non perdere però le abitudini e lo stile familiare, facevano tre mesi a scuola e uno a casa. Durante la sua missione organizzata dalla Chiesa, lei e altri ragazzi hanno visto anche come vivevano i giovani tra le capanne locali e aiutavano i ragazzi creando degli ambulatori dove curavano alcune malattie, in particolare le infezioni, soprattutto agli occhi e alle orecchie. Agli ambulatori venivano le mamme con i loro bambini per richiedere delle cure per queste infezioni e M. andava là anche a spiegare come cercare di prevenire e curare alcune malattie. In Kenya il principale problema era sicuramente la povertà e la carestia.

Dopo è andata a lavorare anche all’ospedale di Wamba, che si occupava principalmente delle malattie che colpiscono gli occhi, dove ha trovato anche altri italiani impegnati nella sua stessa missione.

 Sappiamo che è andata sia a Loreto sia a Lourdes, cosa ci può raccontare riguardo il suo lavoro lì?

Per dieci anni è andata a Loreto per accompagnare insieme all’associazione UNITALSI alcuni malati della provincia. Si occupavano di loro, li portavano in chiesa e li aiutavano nella loro vita quotidiana. In questi anni ha seguito una ragazza paraplegica che aveva bisogno di assistenza 24 ore su 24. In seguito, sempre insieme all’UNITALSI, M. M. è stata due volte a Lourdes.

 Potrebbe raccontarci qualche fatto particolare della sua vita che le è rimasto più impresso?

ha raccontato che, fortunatamente, suo papà era riuscito a fuggire dalla cattura da parte dei tedeschi, che, poiché all’epoca egli era un militare, lo avrebbero trasportato all’interno di un campo di concentramento. Per poter tornare a casa senza farsi scoprire, grazie all’intervento di un suo conoscente, si era fatto nascondere all’interno del vagone dove si tenevano le riserve di carbone che servivano ad alimentare il treno. Un giorno, poi, M. e sua sorella, mentre lo aspettavano alla fermata del treno, lo videro arrivare all’improvviso tutto sporco a causa della polvere nerastra lasciata dal carbone!

Raccontò poi che, quando frequentava la scuola per infermieri a Milano, le era stato anche insegnato come fare il letto, poiché ciò era fondamentale per i pazienti. Ogni giorno la loro direttrice controllava come venivano fatti i letti e anche se si erano lavate prima di andare a dormire, verificando se gli accappatoi erano bagnati. A volte, però, lei e altre ragazze, a causa della stanchezza, non lo facevano e per convincere la direttrice del contrario, prima del controllo, bagnavano i loro accappatoi.

Disse pure che, quando lavorava nel reparto di radiologia a Montebelluna, spesso alcuni dei suoi colleghi si auto – invitavano a casa sua per pranzare assieme e lì parlavano tra di loro liberamente, senza preoccuparsi di essere giudicati. Avevano molto fiducia nei confronti di M. e sapevano che lei non avrebbe diffuso in giro ciò che le avrebbero detto.

Ho fatto tutto questo per egoismo, per sentire che faccio qualcosa, per sentire che non sono di peso. Per sentirmi bene con me stessa. Dopo che è morta mamma, che avevo seguito in ospedale per sei mesi, quando io ero ancora piccola, avevo solo tredici anni, ho deciso che se avessi potuto avrei seguito gli ammalati, per potermi dedicare a chi soffre.”

Questo è ciò che la signora M. ci ha riferito per spiegare la sua grande passione e dedizione nel dedicarsi agli altri. È una donna che ha saputo e che sa ancora essere altruista verso il prossimo e che sa donare tanto a coloro che la circondano. Ancora oggi, come racconta lei stessa, la ragazza paraplegica, che ha seguito per dieci anni, continua a mantenere i contatti con lei e anche i suoi amici conosciuti in Sicilia le inviano durante l’anno delle cartoline. Questo sta a dimostrare come l’abnegazione e il dedicarsi ai più bisognosi lasci dei segni indelebili negli animi delle persone. La signora M. ha saputo dare tanto, senza chiedere nulla in cambio, solo per la semplice gioia del vedere che le altre persone stanno bene grazie al suo aiuto.

La sua frase preferita e che descrive la sua vita è: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”