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Fuga dalla propria patria, la storia di una famiglia di polesani

Di Eva Trevisi

Questa è la storia dell’odissea che una famiglia composta dalla mamma, signora Maria Castracane, e due figli, Giuseppe e Pompeo Lo Martire, ha dovuto affrontare. 

Questa famiglia negli anni ‘40 del secolo scorso viveva in una città di circa 50000 abitanti, Pola, attualmente Croata.

80 anni fa, però, in quella città vivevano più di 40000 italiani,  la maggior parte di origine meridionale, e non più di 3000 persone di origine slava. 

Prima dell’arrivo della VII armata “Belgrado”, a Pola gli italiani e gli slavi coesistevano pacificamente, aiutandosi gli uni gli altri, in una tranquilla cittadina marittima. Fu proprio un ragazzino di origine slava, Giovanni Turak, futuro direttore generale del porto di Pola, a consigliare alla famiglia di Giuseppe di scappare il prima possibile per aver salva la vita. 

La testimonianza indiretta di Gianni, il figlio di Giuseppe, ci racconta così l’esodo: “Di quei 40000 italiani, solo poche centinaia rimasero a Pola, mentre tutti gli altri furono costretti a fuggire. Tra quelli che se ne andarono ci fu la famiglia di mio papà, Giuseppe”

Ciò che gli italiani subirono prima di partire non si può che definire tragico, i giovani venivano presi prigionieri e decimati, mentre i sopravvissuti “erano costretti a mangiare sabbia, mio padre mangiò 2 chilogrammi di sabbia”.

Nel maggio del 1945, però, anche la famiglia di Giuseppe lasciò Pola per l’Italia. 

Il viaggio si faceva per mare, salpando come profughi la motonave “Tuscania”, approdando a Venezia, Ravenna, Ancona o Bari. 

La parte più triste di questa storia è sicuramente la divisione dei nuclei familiari, destino che capitò anche all’allora ragazzo Giuseppe. 

“Mio padre Giuseppe frequentava il ginnasio e venne mandato a Viareggio, mio zio Pompeo frequentava la 3^ media e andò a Torino, mentre mia nonna Maria andò a Trieste”. 

Una volta in Italia questi profughi avevano un altro durissimo ostacolo da superare: essendo scappati da un regime comunista slavo, per i comunisti italiani erano fascisti e vennero trattati da tali.

“Non c’era ancora la condizione che se si scappava dall’Istria lo si faceva solo perché italiani, l’orientamento politico importava ben poco a dei ragazzini di 13-14 anni”, ma in un’Italia post-fascista ciò non fu facile da far comprendere. Pertanto, l’inferno scampato in Jugoslavia se lo ritrovarono nella loro terra, l’Italia. 

Il papà di Gianni, Giuseppe, frequentante il ginnasio, venne trasferito da Viareggio a Trieste dopo un lungo itinerario nel nord della Penisola. Ma il periodo del liceo non fu affatto facile per questo ragazzo, che, ingiustamente trattato da fascista, subì un trattamento sdegnevole. 

“Mio papà mi raccontava di aver mangiato rape per un anno intero in collegio. Tanto che quando venne trasferito in un altro collegio a Montepulciano, martoriato dalla fame, insieme a 4 amici rubò le chiavi della dispensa con le scorte alimentari  e ingurgitò 18 uova crude e 1 litro di olio”. 

Un inferno durato 3 anni. 

Alla fine del liceo classico riuscì a riunirsi con la mamma Maria, che a Trieste viveva da nullatenente e abitava in una buia e fredda cantina. 

“Questi anni furono durissimi, ma mio padre Giuseppe si iscrisse alla facoltà di ingegneria e riuscì a laurearsi”.

Una volta laureato, il padre decise di spendere tutti i guadagni in beni alimentari, memore della fame subita negli anni precedenti, tanto da ingrassare 40 kg in un solo anno. 

E questa è una delle tante storie di Italiani, che nel secondo dopoguerra dovettero lasciare la propria casa, la propria attività, la propria famiglia, per attraversare l’Adriatico, ignorando ciò che sarebbe successo dopo.