Ulisse e noi: tra virtute e canoscenza

Di Anna De Marchi

Il 25 marzo in tutta Italia si è festeggiato il Dantedì, la giornata dedicata al Sommo Poeta nata da un’iniziativa del giornalista del Corriere della sera Paolo Di Stefano, che celebra l’inizio del cammino di Dante voluto da “colui che tutto può” nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso. Caldamente appoggiata e promossa anche dall’Accademia della Crusca, il Professore emerito linguista Francesco Sabatini non ha nascosto nei suoi interventi su Rai1 a Unomattina quanto difficile sia stato istituire il “Dantedì” e non il “Danteday”: per una volta l’italiano ha vinto sull’inglese… a fatica!

Sono state molte le iniziative per celebrare Dante: gli attori si sono travestiti e in solitario hanno recitato i passi della Divina Commedia e gli studenti e le studentesse hanno condiviso sui social le loro letture, hanno dedicato a Dante la loro giornata, ricordando le sue parole e la profondità dei suoi versi. La giornata si è conclusa al Quirinale con il Presidente della Repubblica dove è stato accolto l’attore premio Oscar Roberto Benigni che ha recitato con un entusiasmo e un’intonazione rispettabili il canto 25esimo del Purgatorio. “È il canto della speranza” ha dichiarato Benigni, quale miglior scelta se non questa per il momento storico che stiamo vivendo? La speranza è quella di un abbraccio, “vorrei abbracciarla Presidente, ma non si può!” – ha scherzato
Benigni- ma “Dante dice che ci riabbracceremo”. Il monologo ha avuto qualche momento di satira che-immaginiamo- ha scavato un sorriso nel volto di Mattarella sotto la mascherina che tutto nasconde.

Mattarella ha dichiarato in una lettera al Corriere della Sera il 25 marzo che non crede all’attualizzazione tout court di Dante, ma piuttosto nell’universalità del messaggio della Commedia. Ammonisce: “La coerenza di Dante sia un esempio per noi”, per tutti i cittadini e le cittadine, compresi i politici. No analogie tra l’Italia di oggi e l’Italia di Dante, quindi. E in effetti sarebbe riduttivo, non espansivo: bisogna leggere Dante e poi sforzarsi ed impegnarsi a rispettare la specificità del suo tempo, cogliendo “gli insegnamenti validi per sempre”. Italiani ed esseri umani tutti, abbiamo il in dovere di leggere Dante perché dentro l’opera dantesca è espressa la nostra vera natura, la “nostra semenza”. La Commedia è il viaggio dell’anima… Dante ci aiuta  fondamentalmente a capire la nostra “natura”. Chi non ricorda forse i famosi tre versi del canto 26esimo dell’Inferno:“Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

Non possiamo rinunciare a ciò che siamo, perché… sì, siamo fatti per seguir virtute e canoscenza, con il rispetto e con la consapevolezza che siamo esseri mortali e la nostra curiosità va usata bene. Siamo mortali, ma non per questo mortificati dalla nostra finitudine, anzi. Siamo mortali con il dono della virtù e della conoscenza. Dante può essere spunto di riflessioni profonde per tutti noi. Siamo chiamati a conoscere, ma anche a conoscerci, perché, come Ulisse ha valicato sé stesso e la sua mortalità, per un tentativo di oltrepassare i limiti, oltre che geografici, anche “strutturali”, così tutti noi non dobbiamo vivere l’esperienza della vita come mortificazione per continuo bisogno di andare oltre, ma accorgerci che prima del “limite” c’è molto e siamo chiamati a coglierlo e a viverlo. Rileggiamo il 26esimo canto dell’Inferno, per capire meglio i significati e la risonanza dei versi danteschi. Il 26esimo canto è quello di Ulisse e del folle volo, tutti gli studenti se lo ricordano principalmente per questo, ma non dimentichiamo che i primi versi sono dedicati a Firenze.

L’ottavo, infatti, è il girone delle persone fraudolente che hanno agito seguendo l“ingegno”, ma senza ritegno e con molta spregiudicatezza nei confronti degli altri. È la bolgia dei serpenti che fanno inorridire Dante e… per fortuna che c’è Virgilio che aiuta il sommo poeta. Di Fiorenza, Firenze, “il nome nell’Inferno si spande” è l’invettiva che rivolge Dante alla sua città, di certo non ne celebra la gloria ma piuttosto l’infamia. I dannati di questo girone subiscono la legge del contrappasso e sono avvolti da fiamme roventi, le lingue di fuoco che ora avvolgono le anime sono le lingue che impropriamente hanno utilizzato per dare consigli in maniera fraudolenta. Ma perché Ulisse è finito proprio qui? Noi conosciamo Ulisse, l’eroe viaggiatore dell’Odissea che tante esperienze aveva vissuto durante il suo lungo viaggio di ritorno ad Itaca. Ulisse è l’eroe “dalle molte caratteristiche”, l’eroe poliedrico, assetato di conoscenza, affamato per la sua stessa curiosità insanabile.

Forse che non c’è un po’ di Ulisse in tutti noi? Perché aspettarsi dunque il suo folle volo estremo? Non il Cavallo di Troia, il risultato del suo ingegno, ma proprio il suo “ingegno” è colpevole. Ecco che il termine greco hybris che designa la colpa di Ulisse ritorna chiaramente a definire l’identità dell’eroe, quella che gli dei avrebbero punito con la nemesis. Sono 52 i versi dedicati a Ulisse, la cui colpa è aver oltrepassato le colonne d’Ercole, infatti non è stato punito per quel “manufatto” frutto di tanto ingegno, ma per avere oltrepassato “il limite” umano. Non ha seguito forse virtù e conoscenza? Sì, ma… Ulisse ha peccato “di troppo ingegno” usato male, con troppa libera superbia e tracotanza, credendosi infatti uomo “senza limiti”. Era un uomo che non conosceva fino in fondo se stesso. Non è colpevole per aver progettato il cavallo di Troia, ma per aver oltrepassato il suo limite, che è il limite di un uomo. Dante si concentra sulla fine di Ulisse perché anche l’eroe che non voleva mai “smettere” di essere curioso nei suoi viaggi alla fine è sprofondato durante il “suo ultimo” viaggio dettato dalla curiosità e basta. ulisse voleva fare qualcosa di grandioso per se stesso e per gli altri? Forse voleva qualcosa di troppo grande.
L’origine degli uomini, la semenza, ciò per cui sono stati creati è l’inseguire la virtù e la conoscenza, pertanto devono ricordare di essere nati da Dio, il solo che “tutto può”. Gli uomini sono segnati da una vita di virtute e conoscenza, giacché Dio li ha creati e voluti così, mortali ma con questi doni preziosi. Doni che devono essere cercati e costruiti. E il “folle volo” è una metafora del “volo” della mente e dell’orgoglio al quale spesso gli uomini si abbandonano e lo stesso aggettivo “folle” sembra voler dichiarare tragicamente la qualità del volo: incantevole ed illusorio, temerario e presuntuoso. Così la virtù e la conoscenza che si tramutano in superbia prendono il volo insieme ad Ulisse e si staccano troppo, da terra e dal mare. Pertanto ogni nostro “volo” ci eccede, se prima non abbiamo colto la bellezza del vivere qui e ora, sulla Terra… magari cercando proprio virtù e conoscenza e tenendo a bada orgoglio e presunzione.