Introspezione

Anche se siamo nati liberi, ci ritroviamo sempre in catene e la mia è una paura costante che mi soffoca ormai da mesi. Non si respira più felicità, gioia e spensieratezza. Il mondo in un istante si è scolorito, mutato radicalmente, svuotato. La solitudine regna sulle piazze di città una volta affollate. Riesco soltanto a sentire i dolci suoni della natura, probabilmente l’unico colore che ha mantenuto la sua vivida tonalità, essendosi ripulita dopo che l’uomo è stato costretto a chiudersi nelle sue abitazioni, chi solo, chi con la sua famiglia, ma pur sempre obbligato a restare a casa.

Non avrei mai immaginato potesse realizzarsi il mio peggior incubo: una vera e propria pandemia. Dopo però mi ricordo della legge di Murphy e tutto mi torna più chiaro! Le nostre vite sarebbero cambiate per sempre e noi non ne eravamo consapevoli. L’unico pensiero che ci balenava in mente era quello di goderci quelle due settimane di vacanza, con un po’ di tranquillità. Tutti, inizialmente, con la superficialità che ci caratterizza abbiamo sottovalutato il reale problema. Difatti quelle due settimane divennero tre, poi quattro e dopo ancora un mese e mezzo. Due mesi. Tre mesi. I contagi aumentavano sempre più e i posti in ospedale finivano. Le restrizioni. Le morti. Eravamo in gabbia nella nostra casa che, al momento, pareva essere l’unica ancora di salvezza. Non si andava più a scuola. Non si poteva più uscire. Non si poteva più abbracciare. Non si poteva più amare. Quale libertà ci era rimasta? Nessuna.

I giorni erano infiniti, monotoni ed uguali, sembrava che si duplicassero. La mattina lezione in didattica a distanza, il pomeriggio studiavo e la sera guardavo la televisione. Certi giorni erano più tristi degli altri, mi rinchiudevo in camera con tutto ciò che mi bastava: il mio computer, dei buoni libri e i miei auricolari. Altri ero più allegra, mi prendevo cura di me stessa, mi aggiustavo, piastrandomi i capelli o truccandomi. Spesso mi distraevo passando il tempo facendo giochi da tavola con i miei genitori e mio fratello. Non mancavano, però, quei giorni in cui mi estraniavo dalla realtà, mi teletrasportavo sulle nuvole, nel mio mondo idillico, libero e senza preoccupazioni. Mi mancavano i miei amici, i miei nonni. Mi mancava la normalità.

Nel frattempo era arrivata l’estate, la mia stagione preferita, ma neanche me ne ero accorta. Non avevo più voglia di uscire, di respirare quel poco d’aria che ci era stata privata perché contaminata. Tuttavia si cominciò ad intravedere un raggio di luce: la situazione pareva essere migliorata. La mia voglia di vivere vinse l’ozio che aveva contraddistinto i mesi precedenti e provai a godermi ogni attimo di quell’estate. Però uscire non era più come prima, avvertivo la paura e l’insicurezza della gente che passeggiava, le stesse sensazioni che provavo anch’io. Mi promisi di essere felice e così fu. L’estate rigenerò la vita, risvegliò le nostre anime e con esse, il mondo intero. Purtroppo fu un battito di ciglia. L’incubo era tornato a trovarci. Ottobre, novembre e dicembre furono mesi incerti. Gennaio e febbraio mesi devastanti, poiché il coronavirus arrivò anche a casa mia, aveva sorpassato le mura della mia abitazione e si era impossessato delle nostre anime.

Le settimane passavano, mi sentivo completamente abbandonata e persino due dei miei sensi vennero meno: il gusto e l’olfatto. Tutto quello che mangiavo era insipido. Non avevo più fame. Il tempo non scorreva più. Ero bloccata in un incubo che pareva essere eterno, il quale, forse, risvegliò in me uno spirito di umanità e di amore verso la vita, insegnandomi che, in realtà, tutti quei valori considerati in precedenza pleonastici sono fondamentali per il nostro essere. La riscoperta di tali valori deve divenire il nostro punto di forza. Bisogna ribaltare ogni discorso di retrotopia per cercare di costruire, al contrario, un’ utopia, un sogno di futuro da parte di tutti e  riacquisire quella speranza che dovrà essere in grado di sovrastare il dissidio interiore con cui l’individuo convive ormai da mesi, affinché  possiamo continuare a goderci i doni più grandi che abbiamo: la libertà e la vita.                                                                                                                                                                    Così provavo a farmi forza, una delle mie principali virtù che, però, si perse, si  nascose. Forse ha avuto paura anche lei come me. Ma nella sfortuna io e la mia famiglia abbiamo potuto trascorrere quelle giornate insieme. Grazie alla mia famiglia non mi sono abbattuta.

In particolar modo grazie mamma perché sei l’unica persona che mi ha sempre saputa consolare, distruggendo ogni mia paura e trasformando le mie insicurezze in spensieratezze, un broncio in un mezzo sorriso, quando tutto sembrava crollare. Grazie papà perché mi rallegri e mi capisci sempre, non smettendo mai di credere in me. Grazie Michele perché non mi hai mai abbandonata, nonostante le continue discussioni, quando la notte faticavo a prendere sonno e mi hai sempre accontentata anche quando non ne avevi voglia.

Il virus mi ha schiacciata, avevo solo paura e niente riusciva a distrarmi. Mi ha fatta piangere disperatamente, mi ha fatto stare male, ma ho vinto io. Ancora una volta la mia voglia di vivere ha sconfitto, o quasi, le avversità, il dolore. Sebbene non sia ancora al pieno delle mie forze e capacità, sono più serena e fiduciosa. Sebbene non senta ancora alcun odore e alcun gusto, ho imparato a conviverci, ad assaggiare libri e a sentire l’intenso profumo del cuore umano. Ho imparato a valorizzare l’udito, con il quale ascoltare le sinfonie delle parole affettuose dei miei veri amici, che mi hanno sempre risollevata e abbracciata virtualmente. Ho imparato a stimare la vista, attraverso cui ammirare l’affabilità della vita, con la speranza che presto possa riassaporare e riconoscere l’odore dei fiori, l’essenza dei bei giorni e soprattutto il profumo della libertà.

di Ludovica Fiore