“Con la cultura non si mangia, ma senza non si vive”

di Elena Lanza, 1B

Il mondo della cultura è concretamente minacciato in questo momento storico e non solo l’economia ma anche la nostra anima e la nostra forza stanno per incrinarsi.

Soprattutto la cultura, nutrimento della mente rischia di essere sopraffatta da questa tempesta di silenzio inflittale dal Covid -19.

Una fonte interna, un testimone di questo lockdown dell’arte, Marco Cevasco, tecnico di scena in ambito informatico al teatro Carlo Felice, ci testimonia gli aspetti più importanti di questo decadimento spirituale ed intellettuale.

Nei confronti di quale aspetto del suo lavoro prova più nostalgia?

Mi rattrista il non poter inscenare spettacoli in questo periodo, fa parte del mio lavoro e quindi anche della mia quotidianità. 

Ne deduco che siano avvenuti molti cambiamenti con l’arrivo della pandemia, come vi siete organizzati al teatro Carlo Felice?

Abbiamo puntato sugli spettacoli in streaming, di opere teatrali e concerti sinfonici, che vengono messi a disposizione sulle nostre piattaforme online. Proprio in questi giorni Andrea Bocelli ha partecipato attivamente con noi in questi termini. Questa soluzione temporanea non solo ci permette di avere comunque degli spettatori, ma anche di risparmiare, visto il momento difficile.

Si sente dunque come parte del meccanismo di una macchina rotta in questo momento, poiché è priva del suo carburante ovvero il pubblico?

Il mio lavoro consiste nel soddisfare il pubblico e, senza di esso,  presente in carne e ossa, non ne capti l’emozione e la partecipazione attiva allo spettacolo è nulla. La differenza tra il cinema ed il teatro sta infatti nel coinvolgimento dello spettatore: la magia e quel meraviglioso momento di collettività che si creano durante la visione hanno bisogno della struttura stessa del teatro. 

Qual è, secondo lei, la motivazione principale per cui i teatri debbano riaprire il prima possibile? E cosa prova a riguardo?

Tutti i settori sono importanti, però la cultura ci nutre la mente. Il rapporto che si ha con il teatro è un rapporto vero, vivo; le emozioni, sia intese come reazione a un’opera, sia nella vita reale, si possono trasmettere solo dal vivo. 

Trova la città di Genova diversa da quella dei suoi ricordi pre-pandemici?

Oggi manca del calore umano, delle dimostrazioni d’affetto. Ormai è un anno che la vita di tutti si è interrotta e questa mancanza si fa sentire più forte che mai. L’effetto della pandemia è quello di una guerra: le conseguenze si paleseranno nei prossimi anni e saranno durature.

Fa parte della cultura e tradizione italiana l’andare a teatro, è una passione sedimentata nel nostro popolo artista ma si sta perdendo; io che ci lavoro mi sento maggiormente disorientato. Stiamo sopravvivendo a questo virus, ma si è perso tantissimo. Per voi il teatro è un momento di svago, è solo uno dei modi per passare il proprio tempo libero, ma affrontare la perdita di tutte queste piccole cose non è vivere.

Potremmo definire Genova come un albero rigoglioso e fruttifero, che è però privo della propria linfa, della sua arte?

Sì, è un’analogia che si sposa alla perfezione con ciò che stiamo vivendo. Sia la pianta, che la società, sono destinate a morire davanti alla mancanza della famosa luce in fondo al tunnel. Come la società resiste alle intemperie della storia, così l’albero resiste all’inverno ma solo per poi arrivare alla primavera. L’arte è fondamentale per la vita di questo albero perché fornisce gli input per poter vivere. 

Qual è il suo principale desiderio lavorativo in quest’ottica: quale speranza ha verso il suo futuro, il futuro del teatro e di questa città?

Spero che si ritorni alla normalità il prima possibile e che tutti si possano riappropriare degli spazi che il Covid-19 ha sottratto così a lungo. La passione per il teatro è un’eredità italiana, ma sono in pochi oggi i genitori a tramandarla e la scuola italiana non valorizza affatto materie che un tempo erano fondamentali. Nella quasi totalità delle nostre scuole non c’è educazione all’approccio alla musica, al teatro e spesso all’arte in generale e dunque il nostro pubblico abituale è “over 50”. Temo per il cambio generazionale poiché è probabile che il numero dei clienti diminuisca notevolmente.

E’ in corso un decadimento culturale da questo punto di vista; un abbandono delle tradizioni in favore della globalizzazione. In Italia spesso l’applicazione in ambito artistico è sottovalutata, snobbata addirittura, e di conseguenza i nostri artisti vanno a formarsi all’estero.

In ambito scolastico, il liceo classico è l’ultimo baluardo della idea pura di cultura: essere acculturato è fondamentale per l’essere umano, vuol dire avere il bagaglio giusto per affrontare la vita. Il futuro del teatro dipende da quanti crederanno nell’importanza della cultura e dell’avere un’identità culturale, perché infondo siamo tutti artisti, anche se in ambiti molto differenti.  E’ tutto nelle mani dei futuri politici, insegnanti e genitori.