LA PENA DI MORTE E BECCARIA

La pena di morte, o pena capitale, è una sanzione penale la cui esecuzione consiste nel togliere la vita al condannato. Essa viene applicata per le colpe più gravi come l’omicidio e l’alto tradimento, per reati violenti come rapina e stupro e persino per reati d’opinione come l’apostasia. Questa pratica barbara è ancora in vigore in alcuni paesi come la Cina, l’India, il Giappone, la Bielorussia, la Corea del Nord, l’Iran e alcuni stati degli Stati Uniti d’America. La pena di morte era presente in tutti gli ordinamenti antichi e veniva applicata senza un vero criterio preciso, molto spesso a piacimento del sovrano. Alcuni personaggi della Storia però, limitarono la pena di morte: l’imperatore romano Tito, il re indiano Ashoka, l’imperatore giapponese Saga e la zarina Elisabetta I in Russia nel 1753. Invece in Italia, nella seconda metà del Settecento, troviamo Cesare Beccaria che critica la pena di morte e cerca di modernizzare l’ordinamento giuridico del proprio Stato con la sua opera più famosa “Dei delitti e delle pene“. Cesare Beccaria nasce a Milano il 15 marzo 1738 in una famiglia illustre. Fino ai sedici anni studia nel Collegio dei Nobili a Parma, poi si laurea in legge a Pavia. Nel 1758 torna a Milano e frequenta per un breve tempo l’Accademia dei Trasformatori dove conosce il suo futuro amico Pietro Verri. Nel 1760 accadono due eventi importanti della sua vita: si innamora di Teresa Blasco e scopre gli illuministi francesi. Beccaria per sposare l’amata rinuncia all’appoggio economico dei genitori e ad accompagnare questa scelta c’è l’interesse per gli autori illuministi come Helvétius, Montesquieu, Buffon, Diderot e d’Alembert, ma anche Locke, Hume e Condillac. Durante questi anni si instaura un forte rapporto di amicizia con Pietro Verri e inizia a frequentare l’Accademia dei Pugni e nel 1762, su consiglio del suo amico, comincia a concentrarsi sulla legislazione penale scrivendo il laborioso “Dei delitti e delle pene”. Verrà pubblicato nel 1764 e riscuoterà un grande interesse da parte degli illuministi del tempo. I filosofi parigini sono molto entusiasti di questa opera e nel 1766 invitano Beccaria a Parigi. La trasferta dello scrittore milanese non va affatto bene e decide di concludere il suo viaggio in largo anticipo poiché esso non è fatto per la gloria. Dopo il ritorno dalla capitale francese la sua vita diventa monotona e vive in questo stato di noia fino all’anno della sua morte nel 1794. Beccaria nella sua opera ha il merito di criticare e desacralizzare il diritto penale. Innanzitutto compie una distinzione tra la nozione di “delitto” e quella di “peccato”: la società deve prendere in considerazione solamente il primo per stabilire la giusta pena poiché il secondo è competenza di Dio. La legge deve valutare i danni inflitti alla società e il fine della pena deve essere soltanto quello di porvi rimedio ristabilendo l’ordine. L’obiettivo è quello di proteggere la società e prevenire ulteriori crimini. Beccaria auspica un codice che permetta di eliminare l’arbitrarietà dei giudici dai processi per ridurre le ingiustizie ed evitare che i deboli vengano schiacciati dai potenti. Egli crede che la prontezza della pena sia il miglior modo per prevenire i delitti e ad una moderazione da parte del legislatore. Lo scrittore milanese giudica la tortura ingiusta, perché punisce ancor prima di aver accettato la colpevolezza; lo stesso vale per la pena di morte, anch’essa definita ingiusta e non necessaria. Secondo lui infatti la pena di morte dovrebbe essere sostituita dai lavori forzati a vita. Beccaria dimostra di avere anche una grande sensibilità e un profondo sentimento di compassione per i propri simili. Auspica una profonda riforma dei codici della legge da parte di un filosofo illuminato perché comprende che le attuali leggi ledono i più deboli e danno numerosi vantaggi ai potenti tiranni.
Fortunatamente oggi la pena di morte non è presente in moltissimi Paesi, ma sfortunatamente è ancora presente in una minoranza. È una pratica che dovrebbe essere abolita poiché nessun ordinamento statale dovrebbe violare il diritto umano della vita.
Federico Profeta 4M