In mezzo al temporale, nel bel mezzo del covid

Precisamente un anno fa, nell’aria si poteva percepire l’odore del confinamento che di  a pochi giorni sarebbe diventata la nostra realtà e quotidianità per diversi mesi, in Italia come in tutto il mondo.  Tutto iniziò il 31 dicembre 2019, quando le autorità cinese riferirono all’Oms l’emergenza di diversi casi di una polmonite misteriosa. Il luogo dove tutto ebbe inizio è stato Wuhan, una piccola città cinese di 11 milioni di abitanti, nell’Hubei. In pochi giorni la soglia dei contagarrivò a 41 casi, le persone contagiate lavoravano nel centro città al mercato del pesce e animali vivi. Per via della forte globalizzazione della nostra epoca, in poco tempo, sui social si iniziarono a diffondere decine e decine di foto di ospedali cinesi in forte difficoltà. Immagini che brevemente fecero il giro del mondo e che inizialmente apparvero così lontane dai nostri occhi, dalle nostre vite e dal nostro piccolo mondo fatto di fragili certezze. 

Il virus viaggiò rapidamente, anche fuori dalla Cina: dalla Thailandia, alla Corea del Sud e al Giappone, portando con  le prime vittime e rendendo la situazione ancora più tragica. 

Prima del 20 gennaio la convinzione era che il virus fosse trasmesso dagli animali, ma proprio in questa data gli esperti cinesi rivelarono che la trasmissione avvenisse da uomo a uomo. Notizia importantissima per tutelare il mondo, ma che all’inizio è rimasta all’oscuro di molti cittadini di Wuhan che essendo inconsapevoli viaggiarono per celebrare il capodanno cinese. Ben presto però, esattamente tre giorni dopo, Wuhan entrò in lockdown, insieme ad altre regioni cinesi. Per tutti l’obbligo di rimanere a casa e di indossare la mascherina nelle uscite strettamente necessarie come reperire viveri e beni primari. 

Il 7 febbraio, accadde qualcosa che smosse le acque. Il medico cinese Li Wenliang, che per primo aveva cercato di far partire l’allarme e che inoltre era stato silenziato dal governo cinese con l’accusa di diffondere false notizie, morì.  La consapevolezza dentro di noi si fece più prepotente, scoprimmo che la malattia aveva portato conseguenze non prese in considerazione inizialmente, capimmo che si trattava di una malattia mortale.  

Poco dopo, lOMS designò i primi segni di chiarezza, annunciando di aver modificato il nome del nuovo virus: non più 2019-nCov, ma SARS-Cov-2. Mentre anche la malattia causata dal virus ottenne, per la prima volta, una denominazione ufficiale: “COVID-19”, dall’acronimo di Co (corona), Vi (virus), D (“disease”, malattia) e 19 (l’anno di identificazione del virus). 

Un giorno di fine febbraio, ecco il campanello d’allarme in Lombardia. L’Italia fu uno dei primi paesi a prendere consapevolezza della gravità del nuovo virus e delle brutali conseguenze che di lì a poco quest’ultimo avrebbe portato se non avessimo agito subito. Infatti, il 30 gennaio vennero bloccati i voli diretti e provenienti dalla Cina e il giorno dopo l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte confermò la presenza dei primi due casi di contagio in Italia. Entrammo in emergenza sanitaria nazionale. L’Italia divenne il nuovo epicentro del virus, che di giorno in giorno si spostò da una regione all’altra, aumentando le preoccupazioni di tutti. Nonostante l’accortezza di non sottovalutare la situazione, il fenomeno si era ormai propagato in tutto il paese e non solo. Ormai troppo tardi per tornare indietro. 

Le reazioni furono molteplici e differenti da continente a continente, da stato a stato, da regione a regione e da città a città. La sottovalutazione del fenomeno è stato un errore grave, che lo ha solo alimentato. Ad esempio L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump continuò per molto a ribadire come questo virus fosse solo una  “bufala dei democratici”, paragonandolo ad una banale influenza, e assicurandoci che un giorno sarebbe sparito come per miracolo.  

Alcuni segni d’avvertimento, come la Lombardia che diventò zona rossa, la sospensione della attività scolastiche e le varie restrizioni prese dal Nord, al Sud, al centro Italia precedettero il lockdown totale, il 9 marzo 2020. 

Il coronavirus ha cambiato le nostre vite. Le vite di tutti, a livello mondiale. Nessuna distinzione d’età. In particolare, però, vorrei soffermarmi sull’impatto che ha avuto sui giovani, la fascia d’età a me più vicina, proprio perché la vivo in prima persona.  

Gli adolescenti. Dei ragazzi in tutto ciò, chi se ne occupa? Chi ne parla? 

Capisco perfettamente quanto la situazione, così improvvisa, abbia lasciato tutti spiazzati, senza redini per andare avanti. Ognuno di noi, come individuo, ma anche come stato al livello di unità nazionale ha dovuto tirar fuori tutte le proprie forze dopo una batosta così forte e ha dovuto lottare contro un nemico invisibile, ma letale quanto le armate più distruttive passate alla storia.  

Chi più chi meno, ha contribuito in modo sostanziale nel bene e nel male a stravolgere la drammatica situazione in cui ci siamo trovati e nella quale ci troviamo tuttora, come se il tempo non fosse mai passato. Come si fosse azzerato. 

Noi giovani in particolare abbiamo avuto una chiara direttiva: restare a casa. Chi se lo sarebbe mai lontanamente immaginato che per aiutare a tutelarci, avremmo dovuto svegliarci ogni mattina e ricordare a noi stessi come agli altri quanto fosse importante chiuderci nelle quattro mura delle nostre case. Uno sforzo che non si può paragonare allo straziante lavoro ininterrotto dei medici nelle terapie intensive, che ogni giorno hanno messo anima e corpo nel proprio lavoro. Mettendo avanti il bene comune, piuttosto che quello individuale. 

Il diritto e il dovere di noi adolescenti era quello di andare a scuola, di istruirci e accogliere dentro di noi una conoscenza tale da permettere di difenderci e contribuire ad un futuro migliore. La nostra realtà era la scuola, gli amici e la famiglia. E tutt’un tratto, le tre cose si sono fuse e inglobate in un unico grande globo, quello della solitudine. Sebbene inizialmente l’idea di rimanere a casa fosse risultata entusiasmante, poco dopo è risultato straziante. 

L’isolamento ci ha portato ad un’assenza di quotidianità e ad uno sgretolamento di sicurezze, che prima di allora apparivano scontate ai nostri occhi. “L’obbligo “di presentarsi fisicamente in maniera costante all’entrata di scuola, puntuali al suono della campanella, l’accumulo di valutazioni delle quali un senso effettivo non l’abbiamo mai compreso, il rapporto sociale e umano che ogni giorno ci portava a confrontarci con i nostri coetanei immedesimandoci nelle loro gioie e insicurezze, tutt’un tratto c’è stato tolto.  All’improvviso ci siamo trovati prigionieri delle nostre stesse case, prigionieri di noi stessi. 

Da un momento all’altro siamo stati circoscritti in una realtà dalla quale molto spesso cercavamo di sfuggire. Per quanto possa essere confortevole, la casa è diventata una gabbia. Molto spesso nella vita abbiamo bisogno di qualcosa che ci smuova, una realtà che non sia comoda. Uscire, camminare e cadere. Rimanendo chiusi a casa nessuna delle opzioni è contemplata. Siamo al sicuro sì, perché non possiamo cadere come non possiamo rialzarci, correre e provare la fresca sensazione del vento che sfiora il viso. Siamo protetti, nel bene e nel male, da una bolla troppo aderente. 

Impotenti e insofferenti.  

Soprattutto nel periodo dell’adolescenza, la casa dovrebbe essere un ambiente che trasmette calore. Un luogo sicuro nel quale rifugiarsi dalle avversità della vita, non dovrebbe essere la vita stessa. 

“Rimanere a casa “, più facile a dirsi che a farsi. È stata un’arma letale per poter fronteggiare l’emergenza. Una lama cosi affilata che ha lacerato l’atmosfera di terrore riflessa nelle aride e desolate strade prive di forme di vita. 

Strade, piazze, vie silenziose e inquietanti.  Questa lama, tagliente quanto il nostro ultimo nemico, ha reciso e mutilato anche le nostre anime. Una pugnalata che, nonostante lo scorrere del tempo, ha lasciato cicatrici ben evidenti. Sento di poter affermare che durante la quarantena, due sentimenti contrapposti hanno invaso al contempo il nostro mondo interiore ed esteriore: la speranza e la paura. 

Due sentimenti direttamente proporzionali, che si sono amplificati a vicenda. L’ingannatrice speranza e la temibile paura. Due amiche di cui diffidare, ma due ancore di salvezza in situazioni così ardue.  

La speranza può sembrare illusoria ed effimera, ma penso abbia contribuito a farci alzare ogni mattina e a permetterci di scovare un frammento di luce in un momento buio come quello passato.  

La paura invece, anche quella ci ha aiutato. Siamo rimasti dei mesi a casa perché giustamente costretti, ma quello che ci ha forzati a tenere duro è stata la paura. Per noi stessi, per i nostri cari e per i nostri amici.  Eravamo incredibilmente spaventati e questo ci ha permesso di tutelarci.  

Passò un mese dall’inizio del confinamento e per quanto il mondo digitale abbia aiutato a mantenerci in contatto l’uno con l’altro, il senso di vuoto che ogni giorno faceva strada sempre più dentro di noi, non poteva più essere colmato con una dimensione virtuale. La nostra vita è diventata un fotogramma digitale, non si riusciva più a percepire il confine di ciò che fosse reale o meno. Dove iniziava una forte emozione, finiva riversata in una foto ritoccata su Instagram, all’apparenza luminosa di una luce radiosa ma dentro fredda e in bianco e nero. 

Il desiderio di toccare con mano la realtà si è fatto sempre più forte, ma sempre più aggressivamente ci è stato privato con l’aumentare dei giorni di confinamento. Quando la situazione sarebbe finalmente finita non era dato saperlo a nessuno di noi. Chiunque non era in grado di fare previsioni, perché impossibile. L’agonia di non sapere quando avremmo potuto mettere un punto fine non lo potevamo capire allora, come non possiamo certo farlo adesso.  

Abbiamo resistito. Abbiamo avuto pazienza e siamo arrivati finalmente a maggio.  

Dopo quasi tre mesi di isolamento abbiamo assaporato un brivido di libertà privata per un tempo che per noi è apparso infinitamente lungo. L’isolamento però è stato solo l’inizio del percorso che avremmo dovuto e dovremmo affrontare per un tempo ancora indeterminato. Il poter ricominciare gradualmente a vivere, ad inizio maggio, non è stato un via libera per comportarci come nulla fosse successo. Eppure questo messaggio non a tutti è passato. Più di tre mesi il mondo è stato fermo e con  tutte le attività produttive, i negozi, le multinazionali, le piccole imprese. Chi ne ha potuto trarre vantaggio da questa situazione, l’ha fatto. Per via dello sviluppo tecnologico di questi tempi, su internet il commercio è infinitamente immenso. Chi però, ne è stato impossibilitato, per mancanza di mezzi e disponibilità ne ha risentito in larga misura. Quindi il bisogno di lavorare e il bisogno umano di tornare alla normalità hanno portato ad un comportamento in molti casi irresponsabile durante l’estate e inevitabilmente arrivato settembre la situazione è diventata nuovamente drammatica, ai livelli della prima ondata.  

Neanche cominciato l’anno scolastico, le scuole sono state le prime a chiudere. In particolar modo colpendo i ragazzi del liceo e in parte delle medie. Abbiamo assistito a discorsi infiniti sulla ripartenza. Chi doveva seriamente dedicarsi alla scuola ci ha assicurato di avere in mente diversi “scenari” per ripartire e farlo in sicurezza. Plexiglass, banchi con le rotelle, tecnologia avanzata.  

Adesso mi guardo intorno, non vedo nulla di tutto ciò. Nulla che abbia davvero contribuito ad una ripartenza come penso ci meritiamo tutti. Noi ragazzi abbiamo il diritto e il dovere di andare a scuola. Se quest’ultima è solo un luogo a rischio perché non si è riuscito ad intervenire sui punti giusti, occupandosi delle vere e concrete esigenze, inutile dire che il tempo a disposizione è stato solamente buttato all’aria. La speranza e la paura che fin dentro ci hanno oltrepassato si sta tramutando in rabbia.  Rossa rabbia scottante.  

In situazioni del genere c’è sempre chi è più o meno fortunato, ma questo non deve essere una giustificazione per ovviare al problema.  L’altro giorno al telegiornale ho visto un video di una ragazza con un handicap. Aveva un disagio alle corde vocali, che le impedivano di parlare fluidamente. Stava mandando un forte messaggio. Pregava di poter tornare a vivere, dopo ormai troppi mesi impossibilita ad andare a scuola, per mancanza di sicurezza. Dopo un anno, sono decine di migliaia i ragazzi e ragazze come lei che vorrebbero urlare allo stato che non sono invisibili. Vorrebbero gridare frantumando gli specchi dell’indifferenza. E invece sono lasciati a loro stessi, le urla spezzate e le parole che ancora fanno eco, ma che appaiono sempre meno rumorose. Oppresse da un destino che non possono controllare.  

Dentro di noi arde la fiamma della giovinezza. 

È come se all’improvviso fosse piovuto. 

Gradualmente. 

Prima qualche goccia d’avvertimento scese dal cielo, questo portò con sé la conseguenza d’aver alimentato quella possente fiamma. 

Subito dopo, scese la tempesta. Violentemente e senza scrupoli. Non ha badato a risparmiale i più “deboli” o a privilegiare i più “forti”. Ha reso zuppo chiunque senza escludere nessuno. Nessuna differenza culturale o distinzione religiosa, politica, intellettuale o sociale.  

Ci siamo trovati in mezzo all’acquazzone, cercando di non demordere e aiutando la nostra fiamma a rimanere viva ancora un po’. Ogni giorno sempre di più. Alimentando anche l’ultimo barlume di calda luce rimasta insita dentro di noi. 

Quel calore, il residuo della fiamma iniziale, non si spegnerà mai. Sembra che nonostante il potere del caso, altre circostanze assai letali come provvedimenti non presi o indirizzati male, errori commessi e sforzi non fatti, abbiano mirato ad aggravare la situazione, dalla quale i ragazzi hanno sofferto moltissimo.  

L’indifferenza e l’incapacità nel dimostrare di possedere criteri validi per intervenire, questo ho sentito attorno a me. Lo scopo dovrebbe essere quello di raggiungere una cooperazione fruttuosa e non tumulti e liti inconcludenti. Affinché, per una volta, si lascino da parte le incomprensioni e si cominci a pensare al bene comune. Lasciare da parte gli interessi personali e il senso d’orgoglio e si agisca con umanità nel vero senso della parola. La parte migliore che l’uomo è in grado di offrire. Operare verso l’interesse dei cittadini e comportarsi come uno “Stato” che non sia lacerato da profonde fratture e che sia unito, sostenendosi reciprocamente.  

Questo è ciò che vorremmo, che vorrei. 

Ciò che chiediamo è essere ascoltati, compresi ed aiutati. Ascoltateci, rimarrete sorpresi. 

Non vogliamo lottare invano e soprattutto faremo di tutto per non lasciare che l’impetuosa tempesta spenga la nostra fiamma veemente.

Valeria Magnifico 4N