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Jamal Khashoggi: omicidio di Stato di un giornalista e scrittore

“Se abbiamo avuto delle difficoltà con Mr.Obama, sono certo che ne avremo ancora di più con Mr.Trump. Mr.Trump deve scegliere: non può essere critico con il programma nucleare dell’Iran e non vedere il caos che questo sta creando (guerra in Yemen, ndr)”. L’universale, festoso coro di giubilo con cui l’Arabia saudita ha salutato la sottoscrizione di storici accordi commerciali con il neo presidente americano si interrompe bruscamente. Gli occhi, le orecchie dei funzionari, immersi nel lusso e negli agi di palazzo al-Yamama, si drizzano di scatto, catturate dalle dichiarazioni rilasciate. L’infallibilità decisionale della monarchia del Golfo è stata messa, con coraggio, sotto accusa.

Si avverte dissenso, profonda delusione; e non potrebbe essere altrimenti. La mano progressista, moderata, peculiarità unica del programma propagandistico del principe ereditario Mohammad bin-Salman, non ha mostrato, se non sporadicamente, alcuna manifestazione concreta; gli interessi economici hanno prevalso, ancora, sul bene comune del popolo arabo. Jamal Khashoggi, sinora suo sostenitore, giornalista e volto noto ai telespettatori, storce il naso, non celando forti perplessità. “Non è questa la via, le promesse erano altre”, sembra asserire. La sua voce è rilanciata da moderati ed attivisti per i diritti umani; riconosce l’influenza della propria posizione, e riafferma la fondatezza dei propri dubbi. Non sa ancora che sulla sua scheda MbS ha tracciato una croce, ordinando ai suoi collaboratori di oscurarne la visibilità. La prima scure si abbatte sul suo capo: gli viene impedito di scrivere, rilasciare interviste ed utilizzare Twitter, il social su cui si concentra maggiormente l’attività dei cittadini del regno, per esprimere le proprie posizioni in merito all’operato del principe ereditario. Riga dritto per mesi, conservando la speranza che il provvedimento venga revocato: ma comprende subito, in cuor suo, la deriva autoritaria, reazionaria e repressiva in cui l’Arabia Saudita si accinge a sprofondare.

All’arresto di 38 ministri, detenuti, interrogati e torturati per giorni presso il Ritz-Carlton Hotel di Riyad ed al sequestro di beni in denaro pari a 80 miliardi di dollari, si sommano, nel solo 2017, le oltre 100 condanne a morte eseguite pubblicamente, mediante decapitazione o crocifissione. Un affronto alla Dichiarazione dei Diritti Umani, un escalation di violenza inaudita di fronte alla quale Jamal non può rimanere inerte. La notizia della sua decisione di esiliarsi rimbalza in ogni angolo del territorio.
Twitter si riempie dei cinguettii ricolmi d’odio dell’ “esercito di mosche”, schiere di bot creati dall’hacker e braccio destro di Mohammad bin-Salman Saud al-Qahtani. “La tua fine è vicina, Khashoggi”, recitavano: condanne a morte annunciate da più di un anno a cui Jamal non si era mai consegnato, dato per vinto. La sua stretta collaborazione con il Washington Post, intrecciata a pochi mesi dal suo arrivo negli States, ha portato alla luce tutta l’efferatezza, la malvagità di un uomo, se ancora così ritenete corretto definirlo, estremamente abile nel sedurre politicanti e giornalisti con la propria retorica frizzantina e “rivoluzionaria”; ha donato voce a quanti ancora oppressi, relegati nel freddo, nel buio e nel sudiciume delle celle di isolamento; ha portato l’Occidente ad aprire gli occhi ed osservare la cappa medievale che aleggia, con le sue oscure ali, su una vasta sezione del mondo.

Sono arrivate poi le minacce al figlio Salah, ennesimo colpo basso a cui ha fatto seguito la richiesta di divorzio presentata dalla moglie. I suoi carnefici lo hanno arso lentamente sulle braci ardenti, attendendo con pazienza il nulla osta definitivo per concludere l’operazione-farsa avviata ormai un anno prima. Troppo a lungo aveva “messo in imbarazzo” l’Arabia Saudita di fronte al resto del mondo: era un traditore, come tale doveva essere punito. E quale epilogo migliore si sarebbe potuto scrivere se non un brutale omicidio all’interno di un consolato, conclusosi con un paio di cuffiette, un pacchetto di sigarette ed una sega elettrica per smembrare le ossa di un cadavere già vilipeso, “finemente” insabbiato da un folle sanguinario, mandante dell’ ennesimo omicidio di stato, la cui colpevolezza apparirebbe chiara persino al suo più cieco fedele? Jamal è stato obbligato a lasciarci, quel maledetto 2 ottobre di due anni fa, il giorno in cui avrebbe dovuto ritirare i documenti necessari per convolare a nozze con la sua nuova, dolce metà, Hatice Cengiz. Il desecretamento dei rapporti della CIA non ha rivelato nulla se non una verità lapalissiana.

Le responsabilità, le implicazioni con i piani alti di Riyad appaiono non contestabili: ora serve il coraggio di riconoscerle e comminare, conseguentemente, pene. Così forse non sarà, ma mi stuzzica il pensiero che ciò possa accadere davvero. Potranno toglierci la possibilità di assistere ad un coerente esercizio della giustizia, ma godremmo ancora dell’arma più potente. Non missili, non carri armati, non testate nucleari, ma il ricordo, puro e semplice, di un martire, lui sì fedele servitore del suo popolo. Domandatemi chi fosse Jamal Khashoggi: vi risponderò “il vero volto dell’Arabia.

 

Articolo di Torri Martino, 2I