LA FILOSOFIA DE “I FRATELLI KARAMAZOV”

Era l’inverno del 1881 quando, nel suo appartamento di San Pietroburgo, Fëdor Dostoevskij morì. La sua scomparsa improvvisa lasciò una voragine nella letteratura russa, ma non gli impedì di portare a compimento e pubblicare pochi mesi prima quello che lui stesso definirà il suo capolavoro: I fratelli Karamazov. Inizialmente concepita come parte di una più vasta serie di romanzi, l’opera nei progetti dell’autore avrebbe dovuto rappresentare per la sua epoca quello che la Divina Commedia aveva rappresentato per i tempi di Dante. In effetti il romanzo, oltre che estremamente corposo (si aggira sulle 1050 pagine), risulta davvero ambizioso. Sono tanti i temi filosofici toccati dallo scrittore russo e sviscerare in ogni singolo dettaglio la magnificenza di quest’opera sarebbe un processo lunghissimo, e il fatto che il suo autore la considerasse la più importante da lui scritta non è affatto un caso. Infatti, I fratelli Karamazov rappresenta la summa della filosofia di Dostoevskij e della sua visione del mondo, ed è senz’altro il punto di arrivo per chiunque si approcci a questo grande autore.

La trama del romanzo, come di tutti gli altri di Dostoevskij, non è particolarmente importante per i fini dell’opera, bensì serve da sfondo per i moti interiori dei personaggi, che si riflettono nelle loro parole e nelle loro azioni. Seguiamo la vicenda della famiglia Karamazov, composta da un padre dissoluto e libertino, Fëdor Pavlovič, e dai suoi quattro figli: Aleksej, Dmitrij, Ivan e l’illegittimo Smerdjakov. Aleksej è un uomo genuinamente buono, credente fino al midollo e senza dubbio una delle poche figure positive del romanzo. Dmitrij, invece, ha un animo romantico ma sempre in conflitto, in grado di amare con impeto ma anche di compiere follie indicibili in preda alla passione. Infine, Ivan e Smerdjakov sono i più negativi tra tutti, poiché il primo, seppur estremamente intelligente, è vittima del suo orgoglio e del suo forzato razionalismo, che lo porta a sviluppare idee contorte riguardo a Dio e alla morale, idee che influenzano il fratellastro fino a plagiarlo del tutto. Ognuno di questi rappresenta, probabilmente, un lato dell’animo dello stesso Dostoevskij, che attraverso le loro caratterizzazioni cerca di ritrarre tutta la contraddittorietà del suo spirito e della sua mente. Ma, quindi, quali sono, nello specifico, i temi fondamentali del romanzo?

FEDE E RESURREZIONE

Dostoevskij ha parlato di fede per tutta la sua vita, su questo non vi è dubbio. Per lui il senso della vita umana consisteva in una tendenza verso Cristo e, di conseguenza, in una necessaria nobilitazione morale e spirituale dell’uomo che lo avrebbe condotto verso l’eternità. Questo suo attaccamento alla religione cristiana trova la sua massima espressione nei Karamazov, poiché più volte si discute esplicitamente dell’esistenza di Dio e del suo rapporto con l’uomo. Ma in realtà è verosimile che lo stesso Dostoevskij non fosse provvisto di una fede cieca e incrollabile, e che piuttosto considerasse quest’ultima un salto nel vuoto, una speranza che però è del tutto indispensabile. Questo perché la possibilità di una futura vita oltreterrena e dell’immortalità dell’anima è fondamentale, poiché solo così la morale assume un senso compiuto. Non a caso il libro si apre con un passo del Vangelo di Giovanni che richiama il tema della resurrezione:

In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano, caduto nella terra, non muore, allora resterà solo; ma se muore, allora darà grande frutto”.

Ed il romanzo si chiuderà con lo stesso tema quando, al funerale di un bambino, ad Aleksej verrà domandato: “Karamazov, è vero quel che dice la religione, che tutti noi risorgeremo dai morti e vivremo e ci rivedremo di nuovo tutti?

E Aleksej, in quanto fratello “puro”, risponderà senza indugiare in modo positivo.

RAZIONALISMO

Lo scrittore non ha mai nascosto la sua terribile insofferenza nei confronti dei fanatici del razionalismo e del materialismo. La prospettiva di un uomo ridotto ad una sorta di macchina era per lui inaccettabile, e nelle sue opere maggiori la natura dei suoi personaggi è sempre stata contraria a questa visione. In particolare, in questo romanzo, Dmitrij è la figura che meglio ci fa capire quanto, secondo Dostoevskij, l’uomo non sia un essere del tutto razionale, ma anzi, sia un essere perlopiù folle e guidato da istinti feroci, violenti e passionali. La svolta narrativa del romanzo sta nel parricidio, per il quale verrà accusato(ingiustamente) Dmitrij. Nel corso del processo, appare evidente quanto le prove contro Dmitrij siano schiaccianti; certo, il lettore sa della sua innocenza, ma allo stesso tempo è portato ad ammettere che l’evidenza dice tutto il contrario, e che sia naturale l’accusa nei confronti dell’imputato. Eppure, noi sappiamo che l’evidenza ci sta mentendo, sappiamo che esiste una verità assurda, impensabile, ma che resta pur sempre verità. I ragionamenti logici dell’accusa sono assolutamente indiscutibili, sono in un certo senso corretti, ma allo stesso tempo mancano completamente il punto. Il tutto risulta essere una sorta di sfida nei confronti del pensiero scientifico e razionalista, un modo per dimostrare, attraverso un caso particolare, la loro inefficacia.

IL RUOLO DELLA MORALE

Altro tema caro all’autore, è il ruolo della morale nella vita. Contrapponendosi alle idee del celebre filosofo Friedrich Nietzsche, egli ripudia fermamente il culto dell’oltreuomo e del nichilismo, arrivando a considerarli tra i più grandi mali della sua epoca. Tra i fratelli, è Ivan a portare il fardello di una filosofia così ferrea e iperbolica. Il culto dell’oltreuomo ci dice, sostanzialmente, che per l’uomo sia possibile andare al di là del bene e del male, di non preoccuparsi della morale poiché essa deriva da una costruzione degli uomini precedenti, e che quindi il destino dell’uomo sia quello di superarla (è implicito che vi sia anche una negazione di Dio). Ma per Dostoevskij non c’è nulla di più sbagliato. La morale non è una cosa costruita a tavolino, ma è un elemento insito nella coscienza umana e che tormenta l’animo dell’uomo fino all’esasperazione. Nei suoi romanzi quello che viene chiamato “castigo” non consiste in una pena da parte di un giudice, ma nella pena della propria coscienza, poiché l’essere umano è in primis giudice di sé stesso. Se da una prigione si può fuggire, lo stesso non vale per il senso di colpa. Ivan non è del tutto ateo, ma non crede nella perfezione del creato e non accetta il mondo ingiusto di cui Dio ha circondato gli uomini. Spinto da un eccesso di ribellione, diventa un enigma nei confronti dei propri fratelli e arriva a covare dentro di sé un odio represso nei confronti del padre. Non è lui ad ucciderlo ma, come gli ricorda Smerdjakov (il vero assassino) non si sarebbe mai opposto al suo omicidio. Il culmine arriva quando, in una sera che anticipa una lunga malattia, vede dentro la sua camera niente di meno che Satana. Ciò che però disturba di più Ivan è il fatto che Satana non abbia le corna, non sia un essere fantastico e mitologico, ma abbia le sembianze di un borghese qualsiasi, e che parli come parlerebbe lui stesso. Si verifica quindi quella che in psicologia è chiamata proiezione, poiché Ivan vede nella personificazione di Satana tutto il male che c’è dentro di lui. Ivan vuole credere che quello che vede non sia reale, che sia solo una visione, ed in effetti lo è, poiché il demonio esiste non fuori ma dentro di lui. Infine, quindi, così come Aleksej, dal buon animo, si sente guidato da Dio; così come Dmitrij è vittima dell’eterna lotta tra bene e male, Ivan ci ricorda che, forse, l’uomo ha creato il diavolo a sua immagine e somiglianza.

Noi siamo nature vaste, capaci di mescolare tra loro tutte le possibili contraddizioni e in un colpo solo contemplare entrambi gli abissi, l’abisso che sta sopra di noi, quello degli ideali superiori, e quello che sta sotto i noi, quello del degrado più basso e fetido”.

Francesco Del Sette 4D