Quintiliano e la modernità del suo “buon maestro”

Di Alessandro Cendron

Spesso siamo portati a scorgere nella classicità un modello, che talvolta trasfiguriamo, immaginando la cultura greco-latina come il “migliore dei mondi possibili”, per usare una citazione leibniziana. Tuttavia, a volte, non andiamo molto distanti dal vero. Infatti, uno dei luoghi comuni che tendiamo ad avere è quello per il quale il sistema educativo a Roma, pensando alla caratura di intellettuali come Cicerone e Seneca, funzionasse alla perfezione. Invece, sappiamo che non era proprio così (in primis in quanto la cultura era, e illo tempore non poteva essere altrimenti, una questione appannaggio dei ceti più elevati). Solo alla fine del I secolo d.C. si dà spazio a questa tematica, messa per iscritto e affrontata dal retore più celebre dopo Cicerone, ovvero Quintiliano. Nella sua opera più nota, l’Institutio oratoria, Quintiliano, oltre alle tematiche più squisitamente retoriche, tratta argomenti straordinariamente moderni, come la discussione, probabilmente in voga in quel contesto, se fosse più vantaggiosa l’istruzione pubblica o quella privata, e la descrizione di come dovesse essere il “buon maestro”. Proprio su quest’ultimo punto, è interessante notare come la visione del retore di Calagurris proponesse un modello di insegnante decisamente moderna, se si tiene conto della temperie culturale del suo tempo. Come doveva essere allora il buon maestro per Quintiliano? Eccone qui una pillola…

Egli viene descritto come un secondo padre: infatti, deve comportarsi come se dovesse, e in effetti è così, sostituire i genitori degli allievi. In ciò è da escludere un’interpretazione che veda in questo parallelismo un atteggiamento paternalistico; al contrario, con tale espressione («succedere se in eorum locum a quibus sibi liberi tradantur existimet», ossia letteralmente «creda di subentrare al posto di coloro dai quali gli vengano consegnati i figli») si vuole sottolineare come il docente sia chiamato a svolgere un ruolo prima di tutto educativo e a nutrire interesse per la crescita degli allievi proprio come se fossero loro figli. Il buon maestro, inoltre, deve essere un ottimo esempio di virtù e non deve avere vizi che possano essere trasmessi agli studenti. In questo senso, deve anche saper correggere laddove i discipuli commettano degli errori, senza lasciarsi mai travolgere dall’ira e senza essere troppo permissivo. Anche nelle valutazioni, ci dice Quintiliano, va mantenuto il concetto del “giusto mezzo”, quello che i Greci chiamavano metriótes: da un lato eccedere nelle lodi comporta il rischio che l’alunno sviluppi una stima di sé esagerata, dall’altro
essere “di manica stretta” provoca il rischio opposto, cioè che l’alunno si sottovaluti e finisca col credere poco in se stesso. Il maestro ha un ruolo fondamentale nella crescita dei suoi studenti e dal suo modo di porsi con loro deriva anche il rapporto degli alunni con lo studio, dal momento che, se dovessero mostrare “odio” nei loro confronti, questo farebbe passar loro la voglia di studiare. Il maestro diventa così modello di humanitas, che, prima ancora di impartire nozioni agli studenti, ha il compito di formarli, di educarli, dal punto di vista umano. Ecco quindi come è davvero unica la lezione di Quintiliano se si pensa come la modernità di queste parole sia stata in un certo senso rivoluzionaria in ambito romano e come ancora oggi non sia stata totalmente recepita, in un sistema scolastico che dal grande retore potebbe ancora imparare qualcosa…