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Italiane ma non troppo: intervista a tre su cittadinanza e ius soli

L’elezione a marzo del nuovo segretario del PD, Enrico Letta, ha riportato sul tavolo della politica un tema ampiamente dibattuto: quello dello ius soli. Ad oggi, La legge 91 del 1992 indica il principio dello ius sanguinis come unico mezzo di acquisto della cittadinanza: nasce italiano chi è figlio di genitori italiani, a meno che questi ultimi non siano apolidi o ignoti.

Con lo ius soli (applicato in Paesi come gli Stati Uniti o il Canada), invece, si permetterebbe di dare la cittadinanza ai quasi 1.000.000 minorenni stranieri nati sul suolo italiano. La terza via è quella rappresentata dalla proposta dello ius culturae che permetterebbe di ottenere la cittadinanza dopo il completamento di un intero ciclo di studi. 

L’intervista che segue dà voce a tre ragazze che per diventare italiane anche sulla carta hanno dovuto (o devono ancora) attendere, a differenza di qualche calciatore miliardario.

 

Quanti anni avete, quali sono le vostre origini? Quando avete ottenuto la cittadinanza italiana? Sapete dire quanto è stato lungo l’iter burocratico?

Q: Mi chiamo Queenet Mc Mackson, ho 18 anni e sono nata a Bologna nel 2002. La mia famiglia è arrivata in Italia circa vent’anni fa. Ho ricevuto la cittadinanza nel 2016, a seguito dell’acquisizione da parte dei miei genitori. Quando loro hanno fatto la domanda io ero ancora piuttosto piccola per cui non ricordo esattamente quanto le procedure siano state lunghe; sapevo soltanto che si trattava di una cosa importante.

N: Mi chiamo Nashita Uddin, ho 21, sono nata nel 1999 in Bangladesh, a Dhaka, e mi sono trasferita in Italia con i miei genitori nel 2002. Ancora non ottenuto la cittadinanza; ho fatto richiesta dopo aver vissuto qui per 10 anni. Inizialmente ho dovuto attendere per due anni che a seguito dei decreti Salvini sono diventati ormai quattro. La pandemia ha poi ritardato ulteriormente le procedure.

A: Mi chiamo Alyssa Sumague e sono nata a Bologna nel 2002. Le miei origini sono filippine e ho ottenuto la cittadinanza italiana nel 2020, quando ho compiuto 18 anni, dopo aver atteso 1 anno e mezzo circa dalla richiesta. Per quanto riguarda le procedure, l’attesa è stata molto lunga e mi sono dovuta spostare più volte per raggiungere l’ambasciata a Milano. Vorrei poi far notare che il conseguimento della cittadinanza non è automatico e, oltre a dover rispettare tutti i requisiti, bisogna spendere più di 200 €. Nel mio caso comunque, avendo anche e soprattutto la disponibilità economica, è stato più semplice che per tante altre persone. 

 

Nelle vostre famiglie qualcuno ha la cittadinanza?

Q: Oltre a me e i miei genitori, anche i miei fratelli (che come me sono nati a Bologna) hanno ottenuto la cittadinanza nel 2016.

N: Nella mia famiglia nessuno ha la cittadinanza. Mio padre ha fatto richiesta ma gli è stata rifiutata. Le procedure sono state bloccate da una multa che risultava non pagata; in realtà quest’ultima era stata pagata ma, nel mentre, era scaduto il tempo per fare ricorso. Mia mamma ha fatto richiesta ma per ottenerla dovrà ottenere la certificazione B2 in lingua italiana.

A: No, mia madre non ha la cittadinanza; non ha fatto richiesta per evitare di perdere tempo e soldi, come è successo a mio zio tre anni fa. L’essere straniera per lei è stato spesso motivo di difficoltà soprattutto nel mondo del lavoro: pur essendo dentista, i suoi studi non le sono stati riconosciuti e, anche dopo averli rifatti, l’essere filippina l’ha sempre penalizzata in un colloquio. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto mi metto anche nei panni di un eventuale datore: può costituire un problema dare un posto ad una persona che potrebbe essere respinta perché magari non è più valido il suo permesso di soggiorno.    

 

Cosa è cambiato nella vostra quotidianità da quando avete ottenuto la cittadinanza?

Q: Da un certo punto di vista la questione credo che sia piuttosto simbolica: nella mia vita nessuno mi ha fatto pesare più di tanto il fatto di non avere la cittadinanza e, pur non essendolo formalmente, da bambina mi sentivo italiana. Averla ricevuta per me ha significato poter fare viaggi senza dover richiedere il visto. In ogni caso, vedo che le persone mi guardano in un modo diverso nel momento in cui al posto del permesso di soggiorno mostro di avere la cittadinanza italiana.

A: Ora come ora non devo più pagare il permesso di soggiorno e posso viaggiare con molta più facilità dal momento che non devo più richiedere visti. Sicuramente poi avere la cittadinanza mi permetterà anche di avere più possibilità nel mondo del lavoro, partecipando, per esempio, a concorsi pubblici. Non appena ho ottenuto la cittadinanza ero davvero euforica, poi mi è crollato il mondo addosso perché mi sono resa conto che molte persone mi avrebbero continuato a considerare straniera a causa del colore della mia pelle.

 

Nashita, tu, invece, cosa puoi dire sugli aspetti diversi della vita di una non cittadina italiana?

N: Sicuramente il fatto di essere scura fa sì che mi venga subito chiesto il permesso di soggiorno. Non avere la cittadinanza pesa nel momento in cui vado a cercare lavoro: spesso il motivo per cui vengo rifiutata non ha a che fare con l’inesperienza o il colore della pelle, ma proprio con la cittadinanza. Due anni fa avevo intenzione di frequentare un corso per manager ma non ho potuto perché non sono italiana. Questa mancanza è un grosso problema anche per mio fratello che, pur essendo nato a Bologna, non è ancora maggiorenne.

 

Cosa rispondereste a chi dice che la cittadinanza è solo una formalità?

Q: Per me non ci sono state differenze palpabili, ma mi rendo conto che l’occhio con cui mi guarda la gente cambia nel momento in cui faccio notare che non mi serve il permesso di soggiorno.

A: Gli direi che non è consapevole della fortuna che comporta l’essere italiani in Italia. Oggi ottenere la cittadinanza viene spesso considerato un premio più che un diritto. È stressante non avere la cittadinanza, o, dopo averla ottenuta, dover fare tutta una serie di cose da sola perché mia madre, non essendo italiana, non sa come funzionano determinati meccanismi.

N: Oltre a quello che hanno detto Queenet e Alyssa, io vorrei far notare una cosa: nella mia comunità bengalese una relazione con una persona italiana, spesso viene confusa con il tentativo di ottenere prima la cittadinanza.

 

Qual è il vostro parere sullo ius soli e sullo ius culturae?

Q: penso che vada concesso. Non ha senso lasciare tanti ragazzi e bambini in bilico fra le origini dei loro genitori e l’identità che hanno acquisito nascendo qui. Per anni mi sono chiesta così tanto se fossi più nigeriana o italiana al punto da voler tornare alle mie origini. Quando vado a Lagos o Anambra State mi sento nigeriana, mi sento parte della realtà della mia famiglia, dei miei amici; non capisco perché quando sono in Italia questo non succeda. Non è concepibile che dei giovani abbiano dei dubbi su quale sia la loro identità. Adottare lo ius soli, poi, potrebbe soltanto essere vantaggioso per l’Italia: molti ragazzi si sentirebbero più integrati, potrebbero ricevere un’istruzione e un lavoro migliore, evitando di finire in nero. Dove c’è una maggiore integrazione c’è sempre un benessere maggiore. Per quanto riguarda lo ius culturae, penso che sia importante: mi chiedo perché un ragazzo che abbia completato un percorso di studi e abbia potuto acquisire la cultura, i modi di fare e le tradizioni italiane non possa avere il diritto di ottenere la cittadinanza.

N: Molti miei coetanei bengalesi nati qui che non si sentono italiani e che si sentono sempre a metà: tutto ciò crea confusione sul proprio futuro. Molti se ne vanno a Londra, dove non ci sono tutti questi problemi e, anzi, è possibile ottenere sussidi. Dal mio punto di vista credo che sarebbe importante prendere in considerazione anche lo ius culturae: pur non essendo nata in Italia, ho frequentato tutte le scuole a Bologna da quando sono bambina. Dover aspettare così tanto per ottenere la cittadinanza può andare bene per i miei genitori che sono arrivati in Italia ad una certa età, ma non per me o per mio fratello che, addirittura, è nato qui. In dieci anni sono tornata in Bangladesh solo cinque volte; se mi chiedono se mi sento italiana io rispondo di sì ma purtroppo sulla carta tutto questo ancora non mi viene riconosciuto. Per quanto riguarda l’aspetto economico vorrei parlare di ciò che accade a molti bengalesi: spesso si sentono così poco italiani che spendono la maggior parte dei loro patrimoni per ricostruirsi una vita nel loro paese d’origine; questo li porta a non avere una vita dignitosa e sicura qui.

A: Sono ovviamente favorevole: io per prima so che cosa possa voler dire dover aspettare 18 anni per essere ufficialmente italiana. Per quanto riguarda lo ius culturae, certo, si tratterebbe di un passo avanti ma credo che la cosa più importante sia adottare uno ius soli senza limitazioni. Molte volte ho avuto paura di dire che sono italiana perché so che ci sarà qualcuno che avrà da ridire sulle mie origini, sul mio viso e sulla mia pelle.

 

Vi siete mai sentite così poco italiane da voler trasferirvi nel paese d’origine vostro o dei vostri genitori?

Q: Non penso di poter essere in grado di andare a vivere in Nigeria: io ho acquisito il patrimonio culturale italiano e non mi sono mai abituata all’altro stile di vita. È giusto che i miei genitori possano avere il desiderio di tornare nel loro paese (che hanno lasciato per necessità) ma io sono nata e crescita qui, mi sono creata una vita qui. Trasferirsi comunque non è mai facile: i costi dei voli sono spesso proibitivi per una famiglia che in media guadagna poco più di 1000 €.

N: I miei genitori volevano (e penso che lo vogliano ancora) tornare in Bangladesh ma il fatto di vedere i loro figli così tanto italianizzati li sta facendo riflettere sui loro piani per il futuro: vogliono investire i soldi qui per vivere bene in Italia, dove sanno di poter far parte di tutte le tappe più importanti della vita dei loro figli. Si tratta di cambiamenti che avvengono col tempo. 

A: No. Non c’ho mai pensato.

 

I vostri dubbi sulla vostra identità sono mai stati argomento di conversazione con le vostre famiglie o con i vostri amici?

Q: Con la famiglia sicuramente. I miei genitori tengono tantissimo alle nostre origini. 

N: Oltre che con la famiglia mi è capitato spesso di parlarne con gli amici; in questi casi ho sempre visto solidarietà e attenzione nei miei confronti.

A: Non ne parlo con la mia famiglia. Penso che la prima generazione non sia consapevole di tute le disparità che ci sono e si adegua spesso alle condizioni in cui si trova a vivere. Con gli amici invece sì: nonostante siano spesso inconsapevoli della fortuna che hanno, dal momento che ti considerano italiana, capiscono quale sia il mio problema. 

 

Avete mai pensato al fatto di essere obbligate a lasciare l’Italia?

N: Io a volte ci penso ma non riesco proprio a immaginare cosa potrei fare. Per me sarebbe inconcepibile l’idea di tornare in un paese in cui potrei non trovarmi bene.

Q: Quando avevo 11 ho iniziato a rendermi conto che c’era la possibilità di non poter più stare in Italia e di dover ricominciare tutto da capo.

A: Fino al giorno in cui ho preso la cittadinanza ho avuto paura di fare qualsiasi cosa perché sapevo che se avessi compiuto un reato (o se lo avesse compiuto una persona del mio nucleo familiare), non l’avrei ottenuta subito. Anni fa mi è capitato di pensare di andare a vivere nelle Filippine perché il costo del permesso di soggiorno stava iniziando a diventare un grosso problema. Nel 2018 mia madre aveva pensato di traferirsi in Inghilterra; a quel punto sono andata in crisi: stavo per ottenere la cittadinanza italiana e, invece, l’andare a vivere all’estero me l’avrebbe strappata via. 

 

Di Caterina Monaco

 

 

 

Fonti e dati: https://www.agensir.it/quotidiano/2019/12/10/minori-stranieri-991mila-nati-in-italia-save-the-children-superare-legge-obsoleta-necessaria-riforma-della-cittadinanza/

http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_POPSTRRES1