Mafia, donne carnefici e donne vittime

Legalità. Spesso mi hanno posto dinanzi questa parola, la sento ripetere fin da piccola a scuola, al telegiornale, per strada; ma sappiamo cosa voglia dire realmente? Dal vocabolario: “Il principio di legalità, in diritto, afferma che tutti gli organi dello Stato sono tenuti ad agire secondo la legge. Tale principio ammette che il potere venga esercitato in modo discrezionale, ma non in modo arbitrario, rispettando tutti i regolamenti sull’ordine.” In poche parole il termine legalità comprende tutti i comportamenti conformi alle prescrizioni della legge. Chiarito questo, bisogna dire che in Italia, la legalità è stata messa in secondo piano nella seconda metà del Novecento. In particolare, voglio analizzare la condizione della donna nel contesto mafioso: esistevano donne vittime, ma anche donne carnefici. E’ da queste ultime che vorrei partire, prendendo in causa Nunzia Graviano, figlia di Michele Graviano. Lei e gli altri tre fratelli, Filippo, Giuseppe e Benedetto, avevano in mano la zona di Brancaccio, nella quale la loro presenza era opprimente. Questi fecero uccidere da un sicario Padre Pino Puglisi nel 1993, prete antimafia che aveva a cuore la sensibilizzazione del quartiere in merito al fenomeno mafioso.
Nonostante nella società la donna non avesse ancora un ruolo fondamentale, nella famiglia Graviano, Nunzia era il pilastro portante. Veniva chiamata “a picciridda”, ossia “la bambina”, e per il GIP era l’alter ego dei fratelli: amministrava il denaro, teneva le contabilità delle slot machine, gestiva i soldi da distribuire alle famiglie dei carcerati. Viene ricordata proprio perché fu una delle prime donne a gestire “dall’esterno” una famiglia mafiosa di grande spicco. Proprio per le sue abilità finanziarie, amministrò il riciclaggio di denaro all’estero tramite una società finanziaria di Lussemburgo.

Ma Nunzia Graviano non fu l’unica donna ad avere un ruolo importante nelle famiglie mafiose; si ricorda, infatti, anche Mariangela Di Trapani. Questa era figlia del boss mafioso Ciccio Di Trapani e, a causa della latitanza del padre, dovette fare numerose rinunce, tra cui la scuola. In famiglia era chiamata “ a picciridda”, ma per gli altri era semplicemente “La Padrona”, perché lei comandava e nessuno poteva contraddirla. Si dice di lei che era una donna che pensava come un uomo, poiché conoscitrice dei codici mafiosi, sanguinaria e spietata. Tra i suoi “provvedimenti” ci fu quello di programmare l’uccisione di Giovanni Bonanno, poiché mise in giro la voce che il figlio della Di Trapani fosse frutto di un tradimento; questo gesto non poteva certo passare in cavalleria, dunque nel gennaio del 2006 Bonanno scomparve e, grazie ad un biglietto scritto dal boss Salvatore Lo Piccolo, si seppe che non vi fu altra scelta se non quella di ucciderlo.

Sicuramente, Mariangela non fu una donna come se ne vedevano a quei tempi, bensì fu una donna dura, il cui posto era la strada, tanto che anche al momento del suo arresto Mariangela non si lasciò scomporre, si mostrò con il suo vero volto: quello di una donna orgogliosa del suo operato. Tuttavia, come in qualsiasi campo della vita, vi sono le due facce di una stessa medaglia: vi furono, infatti, donne che ebbero il coraggio di combattere l’illegalità ma che, purtroppo, ne restarono vittime. Tra queste vorrei ricordare Emanuela Loi, Agente di Polizia Italiana che venne uccisa durante l’attentato di via D’Amelio ai danni di Paolo Borsellino. Emanuela Loi fu una delle prime donne della Polizia italiana ad essere assegnata al servizio scorte e, proprio mentre stava servendo il suo paese, perse la vita a soli ventiquattro anni. Emanuela Loi è definita vittima, ma fu una grande eroina, perché preferì rischiare di perdere
tutto a favore di quella tanto pronunciata “legalità”, piuttosto che cedere alla parte marcia del nostro paese che promuoveva l’illegalità praticando l’omertà. Un’altra donna, “vittima” di mafia, fu Emanuela Setti Carraro, moglie di Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale e prefetto italiano. Emanuela Setti Carraro fu l’unica persona che stette vicina al generale nei mesi trascorsi a Palermo, senza timore e con coraggio. Il 3 settembre 1982, era sera quando Emanuela guidava l’auto con affianco il marito, noncurante di ciò che stava per accadere: i loro corpi vennero riempiti di colpi di arma da fuoco. Il generale, fino all’ultimo istante della sua vita, pensò di proteggerla avvinghiandola a sè, come a volerle fare da scudo. Questo tentativo fu, però, vano in quanto entrambi morirono sul colpo e poiché, a seguito dell’autopsia, si scoprì che Emanuela fu proprio la prima ad essere colpita dal sicario di Cosa Nostra. I due coniugi lottarono contro la mafia disperatamente ma purtroppo, come accadeva
spesso in quegli anni, ne restarono vittime.
In questo breve quadro vengono messe in luce le fratture che lo Stato italiano presentava a quei tempi: da un lato c’era l’amore per la legalità che voleva far riscattare il sud, dall’altro, che corrisponde alla fetta più grande, vi era “l’amore per la criminalità” che nella maggior parte dei casi strappò via al nostro paese uomini e donne di grande spessore. In un periodo storico in cui le donne stavano iniziando ad avere il proprio spazio nella società, volendo dimostrare di essere alla pari degli uomini, promuovendo sani principi, vi erano anche donne che volevano affermare la loro figura in altri sensi, promuovendo il terrore, il sangue, la criminalità e la supremazia degli iniqui di cuore. Sicuramente la situazione oggi è ben diversa, poiché vi è una maggiore consapevolezza dell’importanza di gridare a squarciagola che la mafia è stata ed è la feccia della società; l’Italia, però, ha ancora un po’ di
strada da fare per potere sventolare con fierezza la bandiera della legalità.

Eleonora Auteri, V G. liceo scientifico ‘G. Galilei’ di Palermo