• Home
  • Blog
  • Articoli
  • Recensione del film “Basta che funzioni” di Woody Allen

Recensione del film “Basta che funzioni” di Woody Allen

Ogni tanto al mondo viene un tipo che dietro una massiccia e scura montatura degli occhiali nasconde occhi sempre disattenti. Sguardi trasversali, che solo ai misteri della vita si rivolgono frontalmente. E ogni tanto questa mosca bianca si rivela, trasformando in arte la tragicità della vita. Tuttavia non ogni tanto, anzi quasi mai, nasce qualcuno incapace di rinunciare all’intensità del messaggio pur facendo il comico o lo sceneggiatore. Chiamiamo quel qualcuno Woody Allen.

Un pessimista cronico nato da una modesta famiglia ebraica nella New York degli anni ’30, con origini russe austriache e tedesche. A volte spensierato come tanti altri ragazzi, con una passione per lo sport e per il clarinetto. A volte riflessivo come tanti altri geni-filosofi che provano a riordinare il quadro dell’esistenza. Ma con una qualità inestimabile: far convivere beatamente le due identità sullo schermo. Affrontare l’incognita religiosa, la psicoanalisi freudiana e la tendenza dell’uomo al finalismo con la leggerezza di bambino eterno. Direttamente dalla mente di un genio indomabile allo schermo di tutti i cinema commedie di ogni genere e forma, accomunate dalla stessa capacità di riflettere i dubbi esistenziali, che risposte certe non hanno. Film che sembrano causare una reazione speciale e specifica per ognuno. C’è chi identifica Woody Allen come disseminatore di indizi evidenti e metafore tangibili della condizione misera e poco invidiabile umana. Eppure molti considerano le sue opere come frivole e divertenti per una serata di cinematografia casalinga, con pigiama e popcorn compresi. Il più celebre caso: “Basta che funzioni”. La critica ne ha discusso a lungo, tanto da dare l’impressione che i fautori e detrattori si riferissero a film diversi.

Il protagonista è un tale Boris Yellnikoff, un genio della fisica quantistica, persino candidato al Nobel. No, non è il classico film che commemora il valore dell’intelligenza nella società fino all’esasperazione. Il contrario. Boris è intelligente, anzi super intelligente e questo è una piaga, non un lusso. L’autore intende parlarci a cuore aperto e bisbigliare da un angolo dello schermo: “Attenti a ciò che desiderate, non è sempre tutto come sembra!”. Il fisico, ormai anziano, ha riflettuto troppo a lungo sulla vita, fino a comprendere ciò che ogni altro stolto non realizzerebbe mai: quanto l’esistenza sia sfuggente e ingiusta, capace di sottrarre fino all’ultima briciola di dignità a chi non ne ha e di garantire un futuro glorioso al peggiore degli uomini. Così l’unica soluzione che il vecchio Boris trova è quella di rifugiarsi nella falsa convinzione di avere il controllo assoluto, tramite un’esilarante ipocondria e una paura della morte talmente forte da convincerlo che la morte stessa possa esser migliore di quella attesa angosciante: la vita. Un alter ego dell’artista, nevrosi comprese. Eppure ciò che Boris/Woody mai avrebbe creduto è che il caso è sovrano della vita così come della morte. Questa è la storia di un tentativo di suicidio che si trasforma in un buffonesco zoppicare del protagonista e nell’incontro-scontro con l’essere umano antitetico rispetto al fisico: Melody. Una ragazza allegra, giovanissima, cristiana ma soprattutto ingenuamente sciocca. Uno dei tanti “vermetti insignificanti” che Boris detesta. Un impedimento al suo programma di ridursi a una macchina spara pessimismo. Una bambina cresciuta che per gioco decide di divenire la moglie di un vecchietto di cui capisce forse la metà delle parole che usa. Mille peripezie colorano il quadro dell’amore che, eterno o sciocco che sia, “basta che funzioni”: Qualunque amore riusciate a dare e ad avere…qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurare; qualunque temporanea elargizione di grazia… Basta che funzioni!”

L’amore diviene unica sostanza impossibile da studiare o controllare, un bonus per la felicità che sei chiamato ad accettare, indifferentemente dall’età o dal livello di pessimismo cronico.

Un film esilarante ma profondo. Capace di far ridere chiunque sulle sofferenze inguaribili della vita. Un dialogo che prende vita fino a divenire quasi tangibile. Un coinvolgimento assiduo e passionale. Una storia stravagante, a cui la maggior parte degli uomini standard di una società che non risparmia nessuno da sterili pregiudizi darebbe un soldo. Una storia di vita che riesce descrivere la storia di tutti, in quanto uomini. La genesi dell’amore: sentimento dalla dubbia provenienza, che sembra riguardare esseri simili o diversi con la stessa frequenza. Capace di risvegliare in un vecchio cinico suicida prima una strana curiosità, poi una passione per la vita. L’amore eterno, che potrebbe risultare danneggiato dal motto (e titolo) del film è protagonista. Un romanticismo capace di convincere persino Boris. Un inno a raccogliere e donare ogni briciola di amore, con la consapevolezza che solo ciò rende la vita degna di essere vissuta.

Matilde Procopio