La Super Lega

Nonostante sia durata pochissimo, l’avventura della Super Lega è stata incredibilmente intensa. Non solo per le enormi e violente reazioni suscitate in tutti gli ambiti della comunità internazionale, ben oltre il circolo del calcio e dello sport, ma anche per come è stato costruito e presentato il progetto: è accaduto tutto e subito, in pochi minuti si è fatta e disfatta una rivoluzione radicale che puntava a cambiare per sempre uno dei comparti di business più importanti e anche conservatori d’Europa. Quando questo fuoco si è dissolto, ha lasciato strascichi significativi, e anche questi si sono percepiti ben oltre il calcio e lo sport. Era ed è inevitabile che un’operazione così vasta e disruptive avesse dei profondi significati e degli enormi risvolti economici. Anzi, sono stati gli stessi uomini-guida del progetto Super Lega – Florentino Pérez e Andrea Agnelli – a spiegare più volte come l’idea di creare un nuovo torneo con le 12 squadre più importanti d’Europa fosse un tentativo di «salvare il calcio» dalla crisi finanziaria, per dargli nuovi strumenti con cui fronteggiare il momento attuale e le sfide del futuro. D’altronde, la storia lo insegna: la stragrande maggioranza delle rivoluzioni sono state sospinte dagli ideali politici e finanche filosofici, ma gli obiettivi reali erano molto più pratici, per non dire prosaici. È per questo che abbiamo pensato di chiedere qualche informazione in più a Marco Bellinazzo, firma del Sole 24 Ore, giornalista sportivo ed economico tra i più autorevoli del panorama italiano. La sua visione della Super Lega come progetto economico-finanziario non è completamente negativa: da una parte c’è la certezza che il piano presentato dai 12 club fondatori non potesse rappresentare una soluzione ai problemi del sistema-calcio; al tempo stesso, però, Bellinazzo spiega come questo tentativo volesse cambiare un sistema che in realtà non è per niente equo, o meritocratico, tantomeno funzionale. In virtù di tutto questo, e di una crisi estesa e profondissima, la Super Lega è stato solo l’inizio di una nuova fase. Una fase che sarà fatta di grandi cambiamenti, inevitabilmente. Personalmente, devo dire che la reazione ha rappresentato davvero un unicum nella storia dei grandi cambiamenti calcistici: la nascita della Super Lega è stata definita come un golpe, un blitz, e in tanti altri modi molto fantasiosi. L’intero mondo politico, oltre ovviamente a quello del calcio e dello sport, si è schierato contro il progetto con grande veemenza. Ma la realtà è che si è trattato di un tentativo di cambiare un sistema che non poteva reggere a lungo termine già prima della pandemia, e che la pandemia ha finito per colpire proprio nelle sue enormi debolezze. Questo tentativo, però, era piuttosto discutibile, ed è stato pure presentato in maniera ancor più discutibile. È un problema di business model: i club italiani, inglesi e spagnoli hanno sempre avuto la tendenza a spendere più di quanto incassavano, soprattutto per potenziare il parco giocatori. Real Madrid, Barcellona, Juventus, Manchester City e tutte le altre hanno dovuto inventarsi qualcosa per riequilibrare la propria situazione debitoria, e per rispondere a un’ulteriore contrazione degli introiti dovuta al Covid. Secondo loro, la strada da seguire era aumentare i ricavi. Per farlo, hanno deciso di modificare il format della Champions League. O quantomeno: questa era la loro intenzione.

La Super Lega secondo me ha vissuto due grandi problemi comunicativi: il primo, quello che ha creato maggiori resistenze e discussioni, riguarda il sistema competitivo chiuso, o comunque semichiuso. In questo modo, è stato sacrificato il principio fondante del calcio e dello sport: la competizione aperta. È controproducente, per la stessa industria sportiva, definire un format in cui manca la possibilità concessa ai più deboli di misurarsi con i più forti, anche se solo in teoria. Sarebbe stato più opportuno creare e spiegare fin da subito un meccanismo di ingresso basato sul merito, sui campionati vinti o sulle prestazioni nelle altre coppe europee. È mancato il vaso comunicante con altre competizioni, magari in accordo con la Uefa. In questo senso, l’accanimento contro la Super League da parte di tutti è stato più che comprensibile. Il secondo problema ha riguardato le modalità di ridistribuzione degli introiti: le risorse da destinare alla mutualità, ovvero ai club non iscritti, dovevano essere molte di più. Nel comunicato si parlava di 10 miliardi, approfondendo è venuto fuori che questi soldi rappresentavano una percentuale di ricavi su un certo periodo di tempo, per la precisione 23 anni. In totale, sarebbero 434 milioni l’anno: il 60% in più rispetto agli attuali 270 milioni garantiti dalla Uefa ai club che non partecipano alle competizioni europee – da questi soldi, però, vanno scorporati anche quelli che servono a mantenere le strutture e il personale della confederazione. Un aumento del 60%, però, non poteva bastare, la Super Lega avrebbe dovuto promettere il doppio, o anche il triplo, rispetto a quanto distribuito oggi dalla Uefa. Soprattutto a fronte di un aumento potenziale dei ricavi fino ai 3,5 miliardi prospettati.

Zeno Attanasio IIIE