Cronache da Vancouver: Canada, un paese perfetto?

di Sara Perović

“Il mondo ha bisogno di una leadership basata sull’umanità, non sulle armi. E il Canada in questo senso può guidare il mondo.” – Malala Yousafzai. 

Ed è proprio vero, quando sono arrivata in Canada quasi non ci credevo. Tutti gentili, tutti educati, tutti solari. Il primo giorno di scuola mi sono ritrovata a rincorrere l’autobus alle otto di mattina, non facendo caso ai semafori tra Arbutus e King Ed, ma l’autista non ha esitato un secondo, si è fermato appena mi ha vista correre, in mezzo alla strada, quasi bloccando il traffico e mi ha urlato “Cmon on board girl!”. Mi sono sentita a casa un po’ da subito, grazie autista sconosciuto! Quindi sì, in Canada sono tutti civili, sorridenti, professionali, ed amano essere educati e discreti. Questi sono i tratti che saltano all’occhio non appena sei immerso nella realtà canadese, nella realtà di Vancouver… che è sicuramente molto diversa dalla realtà di Bologna, nel bene e nel male. Tuttavia voglio svelare un piccolo grande segreto che i canadesi tengono nascosto. 

Tutti sappiamo che Vancouver è una città multiculturale, anzi forse questa parola non rende: per darvi un’idea ci sono quartieri in cui i segnali stradali sono scritti in quattro o più lingue per agevolare le minoranze (se si possono chiamare così). Dunque si aggiunge un altro pregio tra le caratteristiche dei canadesi, sono anche ospitali ed inclusivi. 

Ma, arrivando al punto, durante una delle mie prime lezioni di Inglese la professoressa inizia a parlare delle “Residential Schools”. Io sul momento tento di tradurre e l’unica cosa che mi viene in mente sono le boarding schools, quelle che noi chiamiamo erroneamente “college”. Ovviamente mi sono sbagliata, ma a mia discolpa il mio inglese era ancora fragile. La lezione va avanti e io inizio a scoprire cosa effettivamente siano le Residential Schools… e rabbrividisco. 

Come ben noto a tutti, quando Cristoforo Colombo approdò in America quest’ultima era già abitata dai cosiddetti “nativi d’America” (gergalmente: Indiani). Ecco, gli Indiani d’America furono sterminati e resi schiavi, ma la progenie non si fermò mai e non è ferma tutt’ora. Infatti, una delle più importanti minoranze in Canada è la minoranza indigena, formata da diversi clan di nativi completamente (o quasi) integrati nella società Canadese. 

Quello che il Canada preferisce non riferire al mondo è che fino al 1996, l’abuso e lo sterminio delle popolazioni indigene non si è mai fermato. Ed eccoci arrivati alle Scuole Residenziali, istituti in cui il governo canadese obbligava a vivere i bambini e gli adolescenti indigeni, in modo da separarli dalla propria famiglia e dalla propria cultura per immergerli totalmente in quella canadese, o meglio inglese ed europea. Ed è proprio così: fino ad una ventina di anni fa gran parte dei ragazzi e delle ragazze indigene erano costrette a vivere lontani dalle loro famiglie per anni e a subire un vero e proprio lavaggio del cervello fino a dimenticare la propria cultura e la propria lingua madre, perdendo la propria identità. Per non parlare degli abusi sia sessuali sia emotivi che i “docenti” esercitavano sui bambini. Ricorda un po’ la Seconda Guerra Mondiale, dove i componenti delle minoranze venivano rinchiusi nei campi di concentramento, abusati e uccisi. 

Per fortuna nel 1996 l’ultima Scuola Residenziale chiuse grazie alla lotta degli indigeni. Negli anni successivi il processo di riconciliazione fu lungo e complesso, fino al 2008 quando il patto chiamato “Truth and Reconciliation” (Verità e Riconciliazione) fu stilato. Grazie a questo patto ora le generazioni che hanno subito abusi e/o perdite a causa delle scuole residenziali sono tutelati e aiutati dallo stato in cui vivono. 

Ripensando alla mia città, Bologna, penso che al rientro farò più attenzione a quanto viene fatto per recuperare il passato coloniale dell’Italia in Africa. Come ci siamo comportati? Quali sono le conseguenze oggi di quel passato e come mai se ne parla così poco sui libri di storia? La biblioteca comunale Cabral ha organizzato a febbraio una versione ridotta e online della mostra “Che Razza di Storia. Come il razzismo non invecchia mai”. Si tratta di percorsi fotografici che raccontano le storie dei migranti nell’Italia e nell’Europa di oggi, allestiti a fianco ad una mostra documentaria sul razzismo del ventennio fascista, per contestualizzare quanto accade oggi nel Mediterraneo in una prospettiva storica.