Diego è morto

Diego è morto.
Lo abbiamo amato come amiamo gli irregolari, quelli che non sanno stare fermi, perché hanno bisogno di uno spazio libero dove spostare i confini, per esprimere il proprio smisurato talento.
Aveva un rapporto simbiotico con la palla: erano fatti l’uno per l’altra: si somigliavano, si attraevano, danzavano in una coreografia sensuale, condividevano un rapporto esclusivo, che non era aperto agli altri che calcavano il prato verde. Un amore generoso verso i compagni, implacabile verso gli avversari, ma tollerato, da loro, con ammirata rassegnazione. A parte Goicoechea che gli spaccò le gambe, ma era un macellaio. Ricordato solo per quello.
Era un grande fuori dalle smancerie del fair play a tutti i costi, ché se c’era da sporcarsi le mani lui era il primo. Lo fece in un mondiale, a danno dell’Inghilterra, e lo rivendicò, contro il nemico della guerra di quattro anni prima. La mano de dios.
Sesso, droga e futbol, amicizie scomode, incluso Fidel, il gelo con gli americani, la trasformazione in una caricatura, la deriva etilica, tossica, logorroica, adiposa, clownesca.
Un cuore grande che alla fine cessa di battere. Ma prima, la gioia infinita di un eterno bambino col pallone.
Lo vidi in un giorno di primavera, nel 1989, ero a Capodichino, avevo incontrato i miei amici cassintegrati ed ero in un parcheggio. Da un cancello laterale uscì un gruppetto di persone, tutte intorno a lui, un ragazzino felice che giocava con la sua Dalmita a cavacecio. Brillava di una luce gioiosa.
Napoli era ai suoi piedi, la città era piena di foto, di bandiere, di scritte.
Una me la ricordo bene, diceva: A Napoli ci stanno tre cose belle: Maradona, tassinari e sfogliatelle.
I napoletani non lo dimenticheranno mai. Nessuno lo dimenticherà.
Addio, e grazie per aver reso quel gioco meraviglioso

Tommaso Petti VEcl