Inquinamento da mascherine

Per fronteggiare il contagio da SARS-CoV-2, tutto il mondo da oltre un anno ha imparato ad utilizzare le mascherine e altri DPI (dispositivi di protezione individuali). Le mascherine sono la nuova pericolosa forma di inquinamento “usa e getta” che colpisce il nostro Pianeta. Si trasformano in microplastiche e, finendo in mare, diventano una bomba ecologica che sta già colpendo la vita di migliaia di animali. Le conseguenze sull’ambiente e sulla fauna marina sono devastanti. Come già accade per la plastica, le mascherine possono essere ingoiate dagli animali acquatici che le scambiano per meduse o anche incastrare, a causa delle cordicelle, altre specie.

Dati

Tre milioni di mascherine utilizzate ogni minuto, quasi 130 miliardi al mese. E tutte finiscono nell’ambiente, perché ancora non si sa come smaltirle adeguatamente. Le stime di alcune associazioni ambientaliste hanno ipotizzato che nei mari ne siano finite 1,65 miliardi. Tra i grossi problemi c’è proprio il loro difficile e lento degrado una volta che finiscono in mare. Infatti, una mascherina impiega intorno ai 450 anni per decomporsi.

Poiché una singola mascherina potrebbe rilasciare fino a 173 mila microfibre di plastica al giorno negli oceani, per quante ne stiamo disperdendo, si stima che in media saranno quasi 5.500 tonnellate metriche di plastica in più che finiscono ogni anno nei mari. La Ocean Conservancy, una onlus internazionale americana, nella sua annuale pulizia delle coste con volontari da tutto il mondo, ha trovato quest’anno per la prima volta insieme ai soliti rifiuti anche dispositivi di protezione medica. Solo negli ultimi mesi del 2020 sono stati rimossi quasi 110 mila mascherine e guanti.

Possibili soluzioni

Purtroppo mancano del tutto informazioni precise e chiare sullo smaltimento. Per questo che le associazioni chiedono da tempo una produzione di mascherine riciclabili, lavabili, riutilizzabili come segnalato dagli esperti, ma anche contenitori e bidoni appositi. Tuttavia a questo appello, seppur molte aziende e startup si stiano impegnando in questa direzione, provando a lanciare dispositivi fatti di canapa, bambù o cotone, nessuno, almeno istituzionalmente, ha dato risposte concrete.

di Riccardo Vicoli