L’arte del Settecento

IL ROCOCÒ

Il Rococò è un movimento artistico diffuso tra la fine del XVII secolo e la metà del XVIII. Il termine deriva dal francese Rocaille e indica un particolare tipo di decorazione «a incrostazione», impiegato per abbellire i giardini delle ville. Si tratta di un superamento netto dell’arte Barocca, dettato da due modi di esprimere l’arte ben distinti. Lo stile del Barocco risulta più aulico, monumentale e severo, mentre lo stile Rococò è più estroso, dinamico e visionario. Il Rococò riflette il pensiero dell’età dei lumi e il suo obiettivo è quello di stimolare l’osservatore sotto il punto di vista “sensoriale”, privilegiando la sensazione e il piacere attraverso l’arte. Si esprime tramite arti decorative, le quali sono di primaria importanza nell’estetica degli arredi domestici con valori quali la leggerezza e la luminosità.

FILIPPO JUVARRA

Filippo Juvarra è sicuramente uno degli esponenti principali di questa corrente artistica. Nato a Messina nel 1678, figlio di un artigiano orafo da cui apprende il gusto per l’arte e per la decorazione scultorea, la sua formazione artistica avviene nella città di Roma, dove ben presto si afferma come scenografo. Nel 1714 diventa architetto della corte di Savoia, al tempo capeggiata da Amedeo II. La sua tecnica progettuale, dove invenzione e monumentalità si fondono con naturalezza, diviene famosa in tutta Europa. Muore poi a Madrid, dove si era recato per realizzare il Palazzo Reale, nel 1736. Le opere di Juvarra non sono altro che un insieme di elementi classici e barocchi. Egli è infatti influenzato da Michelangelo e Borromini, ma li interpreta in modo originale. Lo stile di Juvarra risente dell’architettura del Seicento e delle sue esperienze da scenografo. Date le sue abilità in ambito scenografico, è particolarmente bravo per quanto riguarda la prospettiva e le proporzioni, impresa ardua operando uno stile così complesso e ricco di decorazioni. Vi è anche uno stretto rapporto tra le opere e l’ambiente circostante, scelto con cura.

La Basilica di Superga è una delle sue opere più importanti. Commissionata da Vittorio Amedeo II come ringraziamento per la liberazione di Torino dall’assedio francese del 1706, è collocata sulla sommità della collina di Superga. Presenta una pianta centrale, un’alta cupola michelangiolesca, due campanili di gusto borrominiano e un pronao classico. Si alternano linee curve e piane donando alla basilica un effetto scenografico. La parte posteriore della chiesta è inglobata nel convento, organizzato attorno ad un cortile rettangolare porticato.

IL VEDUTISMO

Il Vedutismo nasce a fine del XVII secolo e si protrae fino alla seconda metà del XVIII secolo. Questo genere pittorico è caratterizzato dalla rappresentazione di vedute prospettiche di città o paesaggi ripresi dal vero e si diffonde con il Grand Tour: viaggio intrapreso dai giovani aristocratici nelle principali città Europee, destinato a perfezionare il loro sapere. Alcune opere vengono definite “capriccio”: unione di elementi della città producendo un falso storico e non una veduta reale. Giovanni Battista Piranesi e Bernardo Bellotto erano noti artisti del grand tour che assemblavano edifici romani per i committenti impegnati nella scoperta. Riproponevano così una Roma antica, rivista e corretta, rappresentando alcuni tra gli edifici più significativi. Il paesaggio cittadino era già stato raffigurato molte volte nel corso dei secoli, ma sempre come sfondo su cui agivano i personaggi. Adesso la veduta diventa un genere a sé e la natura o la città sono gli unici protagonisti del dipinto. I due più grandi esponenti del Vedutismo sono Canaletto e Francesco Guardi.

Antonio Canal “Canaletto” (1697-1768) nasce a Venezia da un padre scenografo e decoratore. La sua prima formazione artistica avviene sui modelli del Rococò. Nel 1719 si reca a Roma e inizia la sua carriera da vedutista. Egli utilizza una “camera ottica”, ovvero una scatola in legno portatile che proietta la veduta sul foglio dell’artista, al quale risulta più semplice riprodurre lo scenario in maniera realistica. Le vedute di Canaletto non sono fredde riproduzioni: il pittore, con tocchi di colore accesi e luminosi, riesce a dare il senso della luce e dell’atmosfera di Venezia.

Francesco Guardi (1712-1793) nasce e si forma a Venezia, attingendo però all’esperienza illusionistica di Tiepolo e non geometrica di Canaletto. Infatti, usa la camera ottica con moderazione e le sue prospettive tornano ad essere più interpretate che descritte. I contorni perdono la nitidezza e i personaggi presentano caratteri caricaturali come se fossero chiamati a recitare. Anche l’uso tecnico dei colori cambia e ne deriva un’atmosfera idealizzata e pittoresca, la cui realtà viene portata sul piano sentimentale, riesce ad accendere ed animare le sue vedute.

I due artisti, pur essendo entrambi vedutisti, presentano delle differenze sostanziali: Canaletto è caratterizzato da una sintesi geometrica e viene considerato un fotografo poiché fa uso della camera ottica, mentre Guardi è caratterizzato da una sintesi pittorica e passa direttamente alla pittura con un marcato effetto di chiaroscuro che suscita emozioni. Le opere di Canaletto sono talmente perfette da non suscitare tante emozioni quanto quelle di Guardi, il quale è paradossalmente più realistico poiché dipinge sul momento. Canaletto, infatti, crea solo lo schizzo dal vivo e realizza la pittura vera e propria in laboratorio.

IL NEOCLASSICISMO

PROFILO STORICO: ILLUMINISMO

La seconda metà del 700 è caratterizzata da trasformazioni importanti, avvenute in breve tempo. Il clima di entusiasmo e fiducia nell’ uomo portò alla rivendicazione del pensiero come caratteristica indispensabile per la comprensione della realtà. L’essere umano ha ora il compito di far luce sulle conoscenze acquisite nei secoli precedenti: con la sua razionalità indaga tutti i campi del sapere e si pone nuove domande. Un esempio concreto di tale pensiero fu la prima enciclopedia del 1751 a cura di Diderot, che aveva l’obiettivo di offrire una raccolta universale del sapere in chiave laica. I filosofi illuministi spingevano l’uomo a concentrarsi sulle cose terrene e a liberarsi dai dogmi. La religione diventa soggettiva e privata: non è più universale e da osservare con obbedienza. Vi è l’obiettivo di separare passato e presente, rielaborando i canoni del passato con un’ottica di recupero. Ciò avviene attraverso il Neoclassicismo, nel quale l’ammirazione per l’Antichità greca si traduce in elaborazione di modelli architettonici razionali e regolari. Vi è un nuovo clima di tolleranza: gli illuministi si battono per ottenere una società più giusta, nella quale tutti i cittadini possano essere finalmente liberi di partecipare attivamente alla vita dello Stato. Queste aspirazioni vengono riassunte nel motto “Libertà, Uguaglianza e Fratellanza”. I sovrani si pongono l’obiettivo di modernizzare e riorganizzare lo stato. Infine, con la Rivoluzione Americana nasce il concetto di uguaglianza. Nel 700 vengono incrementati gli scavi archeologici, con la diffusione del collezionismo ed il gusto per le copie dei nuovi reperti. I pensatori illuministi sottopongono ad un’indagine razionale anche l’arte, alla quale vengono affidate nuove funzioni: non più imitare la natura ma analizzare in modo quasi “scientifico” la realtà del mondo e delle sue forme.

PROFILO ARTISTICO: NEOCLASSICISMO

In campo artistico, vi è una forte reazione alle stravaganze del Barocco al quale vengono sostituiti dei correttivi classici, dando origine al Neoclassicismo, consistente nello studio e nel riproporsi dell’arte classica, nonché conseguenza del pensiero illuminista. Il termine venne coniato a fine Ottocento in senso dispregiativo poiché indicava un qualcosa di non originale. La passione per l’antico diventa, grazie alla stampa ed ai viaggi, la caratteristica più significativa. Ciò viene rappresentato nell’opera di Zoffany che raffigura La biblioteca di Charles Towneley nel 1783. Il padrone di casa siede a destra e tre amici stanno discutendo. Vengono inserite nella stanza tutte le copie di sculture celebri presenti nell’abitazione. Il Neoclassicismo si indirizza verso la ripresa dell’arte classica con i suoi principi di equilibrio, proporzione e serenità. Si diffonde l’idea che la perfezione artistica dei greci sia insuperabile e, dunque, non si debba imitare la realtà, bensì imitare gli antichi perché le loro opere possiedono una bellezza e un’armonia che nel mondo reale non esistono. Al riferimento estetico alla classicità si accompagna anche il riferimento etico ai valori del mondo antico.

NEOCLASSICISMO: PRINCIPALI ESPONENTI

JACQUES-LOUIS DAVID

David è uno dei principali artisti neoclassici. Egli nacque a Parigi, ma ebbe la possibilità di studiare a Roma, dove studiò le pitture di Raffaello. Grazie a questo viaggio, egli aprì gli occhi sull’antico, giungendo alla conclusione che operare come gli antichi e come Raffaello significa essere veramente artisti. Rientrato in Francia, subì il fascino di Napoleone e divenne un suo grande sostenitore, venendo nominato Primo Pittore dell’Imperatore. Dopo la sua caduta, David venne esiliato a Bruxelles.

Nonostante dopo l’esilio egli riprenda i temi mitologici e si allontani da quelli storici, nel periodo principale della sua produzione artistica, David rappresenta nelle sue opere la storia e la politica contemporanea. David utilizza tecniche abbastanza semplici per i suoi disegni preparatori: il suo unico obiettivo è di ottenere chiarezza del disegno tramite il contorno netto. Egli, seguendo le indicazioni di Winckelmann, recupera sia le forme degli antichi che i loro ideali etici. Tra i valori principali vi era quello dell’uomo-eroe che combatte per la propria patria. Ciò si ricollega anche al periodo di eccitazione e frenesia tipico della Francia del Settecento. Egli, come consigliava Winckelmann, non dipinge mai il momento violento e ricco di pathos, ma quello antecedente o posteriore. Le figure statuarie dell’antica Grecia, infatti, venivano sempre colte in un certo stato di atarassia.

LA MORTE DI MARAT (1793)

Il medico rivoluzionario Marat, deputato alla Convenzione e presidente del club dei Giacobini, era tra i responsabili della caduta dei girondini e venne assassinato da Charlotte Corday, seguace delle girondine. David fu incaricato dalla Convenzione di celebrare la figura di Marat in un quadro. Nel dipinto non compaiono tutti gli elementi del luogo del delitto, poiché avrebbero reso la sua morte pari a quella di un uomo comune. La carta da parati viene sostituita da un fondo scuro, mentre il cesto che fungeva da tavolino diventa una sorta di lapide in legno con su scritto: “a Marat, David”. La sobrietà e l’essenzialità dell’arredo indicano la povertà di Marat, ucciso a tradimento per le sue virtù, le quali esaltano il suo valore morale. Egli si trova nella sua vasca da bagno, mentre scriveva l’inizio di una supplica. Il calamaio, la penna d’oca e il coltello insanguinato indicano gli strumenti della passione. Infatti, la posizione de defunto ricorda la pietà di Michelangelo e la Sepoltura di Cristo di Caravaggio. Il parallelo con la morte di Cristo lo colloca al di sopra degli altri uomini, rimarcandone le virtù. Viene rappresentato il momento successivo all’omicidio: l’evento violento non è mostrato e il volto dell’assassina è condannato all’oblio. In quest’opera si palesa anche una delle principali caratteristiche del pittore, ovvero la volontà di descrivere avvenimenti contemporanei. La morte di Marat, infatti, è l’immagine del dramma della Rivoluzione francese.

LE SABINE (1794)

Iniziata nei tempi della prigionia, successivi alla morte del tanto stimato Robespierre, l’opera ha lo scopo di invitare i propri connazionali ad abbandonare ogni desiderio di vendetta. L’evento raffigurato è quello della leggenda secondo la quale i Sabini, guidati da Tazio, tentano di riprendere le loro donne, rapite dai romani per poter popolare la neonata Roma, governata da Romolo. Per evitare eccessivi spargimenti di sangue, si scontrano un duello Tazio e Romolo. Nella scena si interpone Ersilia, figlia di Tazio e compagna di Romolo, che li incita a fermarsi. Nella figura di Ersilia, dunque, si impersonifica l’autore. Il gruppo di donne posizionato nel centro si rifà a quello dell’Incendio di Borgo di Raffaello e alla Strage degli Innocenti di Guido Reni. La nudità eroica è una delle innovazioni del dipinto e richiama alla statuaria greca. La geometria del dipinto è caratterizzata da posizionamenti contrapposti: Ersilia ha braccia e gambe divaricate e il suo dinamismo è accentuato dalla chiusura della donna vestita di rosso, che le si contrappone. I quattro personaggi maschili principali alternano la rappresentazione tergale a quella frontale. Inoltre, le posizioni inclinate e divergenti di Tazio e Romolo formano due triangoli con la figura di Ersilia.

JEAN AUGUSTE DOMINIQUE INGRES

Ingres frequentò l’atelier di David, ma si formò anche a Roma, dove risiedette per molti anni. Si scontrò con Delacroix poiché Ingres era un pittore del neoclassicismo, al quale si stavano sostituendo le espressioni romantiche. Con i suoi disegni, egli si dedicò ad uno studio anatomico dettagliato. Per Ingres, come per Raffaello, il disegno non consiste solo nel tratto poiché è anche espressione e forma interna, comprendendo quasi tutto ciò che costituisce la pittura. Egli sostiene che il pittore non debba esercitarsi nella copia della natura, ma sulle incisioni dei grandi maestri. Diversamente da David, ad Ingres non interessa l’antico per i contenuti morali, ma per le forme: il fine dell’arte è la bellezza, la quale si manifesta con la perfezione delle figure. Mentre David prende come prima ispirazione i modelli antichi, Ingres si ispira principalmente alle pitture di Raffaello. Un’ulteriore discordanza tra i due artisti consiste nei contenuti: a differenza di David, per Ingres il quadro non deve necessariamente trattare temi di attualità, poiché la sua funzione principale è di rappresentare la bellezza. Quindi, pur subendo l’influenza del suo maestro David, Ingres ne critica la mancanza di spontaneità e la rigidità. La straordinaria abilità del pittore sta nell’essere rimasto fedele ai rigidi canoni neoclassici, riuscendo a conciliare i vari elementi dai quali prende ispirazione, come l’arte ellenistica, la scultura greca o Raffaello.

NAPOLEONE SUL TRONO IMPERIALE (1806)

Quest’opera venne commissionata per contribuire alla propaganda di Napoleone Bonaparte. Egli veniva solitamente rappresentato in piedi, mentre Ingres rivoluziona la tradizione, ritraendolo seduto sul trono imperiale in una perfetta frontalità, con vesti e simboli regali che gli conferiscono una certa monumentalità. Il corpo scompare ed è privo di profondità a causa del voluminoso abito bianco e del mantello color porpora. I colori principali che caratterizzano la composizione sono l’oro, il bianco, l’azzurro e il rosso. Emerge un piede entro una preziosissima scarpetta e le braccia sono fasciate. Il volto sembra scolpito nell’avorio. Sono numerosi i simboli di potere, volti ad elogiare Napoleone: lo scettro di Carlo V, la Mano della Giustizia, la spada gemmata di Carlo Magno e la corona d’oro. La figura racchiude un’iconografia sacra (Dio), profana (imperatori dell’antica Roma) e mitologica (L’Aquila del pavimento rinvia a Zeus). Il protagonista sembra formato da un corpo mistico senza tempo, erede degli imperatori romani e successore di Carlo Magno.

IL SOGNO DI OSSIAN (1813)

Il quadro era stato commissionato per decorare la camera da letto di Napoleone nel Palazzo del Quirinale. Nella scelta della composizione, l’artista si ispirò a “I canti di Ossian”, opera letteraria attribuita a James MacPherson. Ossian è addormentato e chinato sulla sua amata lira, che accompagna i suoi canti, sullo sfondo di un paesaggio roccioso ispirato alle Highlands scozzesi. Alle sue spalle si materializzano i suoi cari e alcuni personaggi delle sue ballate, i quali caratterizzano i suoi sogni. Ingres distingue il mondo terreno da quello ultraterreno attraverso la scelta dei colori: il rosso vivo del mantello di Ossian si contrappone alle tonalità utilizzate per i personaggi onirici che sono fredde, quasi monocrome ed illuminate con una luce opalina. La monocromia sottolinea l’incorporeità, accentuata ulteriormente dalla presenza delle nubi. Le figure di sinistra appaiono con pose variate, mentre quelle di destra formano un muro di armati che si allontana prospetticamente. Ingres aggiunge successivamente alcuni membri della famiglia di Ossian, tra cui il figlio Oscar, la moglie Evirallina, semidistesa mentre sfiora il braccio del bardo che sogna, ed in primo piano, coperto dalla sua armatura, il padre Fingal. Un silenzio sovrannaturale avvolge la scena. L’effetto di controluce che la caratterizza è un ricordo degli armati che vegliano l’Imperatore nel Sogno di Costantino, affresco realizzato da Piero della Francesca. Nell’opera si può notare un gusto preromantico, con il tema del sogno e della solitudine.

FRANCISCO GOYA

Francisco Goya nasce in un povero borgo vicino Saragozza. Nel 1770 compie un viaggio in Italia e, tornato in Spagna, riceve subito diverse commissioni. Negli anni ‘80 inizia a dedicarsi alla ritrattistica di aristocratici, diventando pittore nella corte di Re Carlo IV. Viene colpito da una gravissima malattia, alla quale sopravvive dopo una lunga convalescenza, rimanendo quasi sordo. Da questo momento, la sordità e l’isolamento portano alla luce il senso di angoscia a lungo repressi e nelle opere iniziano ad affacciarsi elementi mostruosi, in un percorso che culminerà con le Pitture Nere. Si dedica quindi alla realizzazione dei Capricci, una raccolta di incisioni, e assiste alle violenze della guerra di indipendenza spagnola. Nel 1814, dopo la Restaurazione, Goya realizza “Il 3 maggio 1808”, con il fine di immortalare le azioni eroiche compiute dal popolo insorto contro Napoleone. Si allontana gradualmente dalla corte e si trasferisce fuori città, dipingendo le Pitture Nere, realizzate sulle pareti della sua abitazione. Nel 1824 Goya viene esiliato in Francia. Vive gli ultimi anni a Bordeaux.

Nelle sue opere, Goya ha uno stile personale. Egli, infatti, nasce come pittore neoclassico ma, probabilmente influenzato dalla malattia e dalle atrocità vissute durante la resistenza spagnola, il suo stile anticipò il realismo ed il romanticismo, con la raffigurazione di scene contemporanee o derivanti dalla sua immaginazione. Egli crede che in arte non ci siano regole, ed è ostile al dipingere con troppe limitazioni poiché l’importante è la personalità del poeta. Goya utilizza grandi pennellate che non hanno l’obiettivo della precisione, bensì di far risaltare le figure tramite giochi di luci ed ombre, distaccandosi dalla plasticità scultorea di David e Ingres. Le opere principali eseguite con queste tecniche sono i Capricci, che hanno come tema centrale le ombre e le sensazioni più oscure dell’uomo, elementi rappresentati con mostri osceni o figure della notte. Questa visione tetra della realtà portò Goya a dipingere le Pitture Nere, dove è centrale la supremazia del male e degli istinti negativi sull’uomo e sulla sua razionalità. Goya, quindi, non può essere inserito in una precisa corrente artistica poiché la sua formazione neoclassica si scontra continuamente con il suo animo tormentato, tipico del romanticismo, e con la sua volontà di rappresentare scene di attualità come avviene nell’opera dedicata al massacro del popolo madrileno. Le differenze tra i due pittori precedentemente analizzati e Goya riguardano anche l’aspetto contenutistico: David e Ingres si ispirano al pensiero di Winckelmann e ricercano nelle loro opere la superiorità dell’essere umano e l’ideologia eroica, mentre Goya predilige temi legati ad emozioni improvvise che dominano sulla ragione.

SONNO DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI (1797)

Il “sonno della ragione genera mostri” è il disegno preparatorio di un’incisione appartenente alla raccolta dei capricci, volta a rappresentare le allegorie dei vizi umani a fine di metterne in ridicolo la brutalità. Attraverso i capricci viene anche denunciata l’incapacità della classe dominante e la sua stoltezza, ammettendo la caduta dei valori dell’Illuminismo. Egli mette in guardia dalla tentazione di allentare il controllo della ragione al fine di evitare il prevalere dei nostri mostri interiori. Intorno ad un uomo addormentato appaiono, quasi sprigionati dal suo cervello, degli uccelli notturni e una lince, simbolo delle paure che il buio suscita. Il fitto tratteggio drammatico crea effetti di chiaroscuro.

LA FUCILAZIONE DEL TRE MAGGIO 1808” (1814)

Goya rappresenta il dramma della rivolta antinapoleonica, vissuta da lui in prima persona quando assistette alla resistenza del popolo madrileno contro l’invasione francese. Contrariamente alla tradizione, viene raffigurato un fatto contemporaneo e l’opera è considerata il primo manifesto contro gli orrori della guerra. Nonostante la pittura sia larga e pastosa, stesa a tratti con la spatola, si crea un forte effetto realistico. Il punto di massima tensione è l’uomo inginocchiato con le braccia distese in un gesto di disperazione e illuminato dalla luce della lanterna. I soldati allineati in diagonale e rappresentati con le loro armi sottolineano la rigidità e l’impersonalità di una macchina per uccidere. La schiera di patrioti è divisa in tre gruppi, guidati ciascuno da un uomo, che rappresentano tre momenti distinti dell’esecuzione: il gruppo più a destra rappresenta il ‘prima’, il gruppo centrale l’‘adesso’ e il gruppo a sinistra il ‘dopo’. L’uniformità dei militanti è posta in contrapposizione alla varietà degli atteggiamenti dei partigiani, scompostamente ammassati come animali impauriti. Sono presenti elementi della tradizione cristiana: la posizione dell’uomo in centro (nel suo volto si legge con crudezza la paura della morte e la rabbia, elementi ignari ai dipinti impassibili neoclassici) ricorda il Cristo in croce, il frate intento nella preghiera e la sagoma della chiesa, la quale si staglia su uno sfondo scuro. La volontà di inserire elementi riguardanti la Chiesa è volta a sottolineare l’impotenza della fede di fronte alla drammaticità degli eventi storici. In basso si accalcano i cadaveri e, con la luce della lanterna, il sangue ed i volumi si confondono. Attraverso questo dipinto Goya non vuole semplicemente raccontare un evento, ma vuole impressionare l’osservatore comunicando il grido, la disperazione e la brutalità vissuti durante la guerra di indipendenza.

SATURNO CHE DIVORA I SUOI FIGLI (1821)

L’opera fa parte delle Pitture Nere, interpretate come riflessioni sulla morte. I temi principali sono religiosi e mitologici, per quanto alcune scene sembrino scaturire dall’immaginazione. Il male scaturisce come entità in sé, non più connesso all’uomo: la violenza, la guerra, la follia, il caos appartengono all’ordine delle cose. “Saturno divora un figlio” si trovava nel pianterreno dell’abitazione e riceveva luce da una finestra posta immediatamente alla sinistra, come indica la direzione della luce da cui appare il Dio cannibale. Saturno era una divinità agricola romana e, cacciato il padre, si fece signore del mondo. Sposò Rea da cui ebbe numerosi figli, ma avendogli Gea predetto che uno di essi l’avrebbe spodestato, li divorò tutti eccetto Giove, che fu messo in salvo da Rea e che affrontò poi il padre, sconfiggendolo. Viene espressa la cieca bestialità del potere che teme l’usurpazione. Saturno emana follia e orrore dagli occhi. L’opera ruota attorno ad un’allegoria: Ferdinando VII è in preda alla smania di potere come Saturno, ed era tornato all’assolutismo, sterminando i suoi sudditi.

A cura di: Viola Papetti, Luca Gravili