Progetto “RACCONTI DEMOCRATICI”. Le interviste

Il progetto RACCONTI DEMOCRATICI. Campagna di comunicazione per la promozione della cittadinanza attiva e del rispetto dell’altro prevede l’ideazione e la realizzazione di una campagna di informazione finalizzata a sensibilizzare giovani e adulti sui temi dell’educazione interculturale, del rispetto delle differenze e del dialogo tra culture. Affrontare queste tematiche è fondamentale per incentivare nei giovani il senso di comunità, per creare spazi di confronto, per prevenire e/o intervenire in situazioni di difficoltà.

L’obiettivo del progetto “ Racconti democratici” è quello di affermare l’importanza del ruolo della scuola nella promozione dei valori democratici e nel favorire la crescita di cittadini attivi, rispettosi delle differenze e capaci di esercitare la propria coscienza critica.

LE INTERVISTE

Le prime due interviste affrontano le tematica dell’educazione interculturale, del rispetto delle differenze e del dialogo tra culture diverse; la terza, il tema del Body Shaming.

I Il protagonista della prima intervista è un ragazzo “Italiano ma anche Cinese”, perfettamente inserito nel contesto sociale e scolastico; frequenta il quarto anno del Liceo Linguistico, ha 18 anni e una bellissima storia da raccontare, una storia emozionante in cui comportamenti, regole sociali e culturali diverse, sentimenti autentici giocano ruoli determinanti che si intersecano tra loro.

L’incontro avviene virtualmente sulla piattaforma abitualmente utilizzata dalla scuola per lo svolgimento delle lezioni curricolari. L’intervista è condotta da alcuni compagni di classe ma la strutturazione delle domande è stata curata dall’intero gruppo.

INT. H. Vuoi presentarti?

H. Mi chiamo H., ho diciotto anni, attualmente vivo con la mia famiglia in un piccolo paese dell’Abruzzo, in provincia di Pescara. Frequento il quarto anno del Liceo Linguistico. Ho una sorella di qualche anno più grande di me.

INT. Sei nato in Italia, ma so che in fondo tu non ti senti “Italiano”? Puoi spiegare perché?

H. Sono nato in Italia, ma non mi sento italiano perché la mia famiglia è cinese, in casa si parla cinese e le nostre abitudini sono cinesi. Quando ero piccolo e dovevo andare all’asilo, non volevo andarci perché c’erano persone che mi ridevano in faccia, facevano gesti strani e provavano ad imitare il modo di parlare dei cinesi. Soffrivo molto per questi comportamenti e preferivo stare sempre con mio padre: la mia vita così è trascorsa serena e tranquilla fino al giorno in cui abbiamo ricevuto la visita dei Servizi sociali: dovevo tornare a scuola! Ricordo che piangevo e stringevo forte la mano di mia madre, non volevo staccarmi da lei.

A dire la verità mi aspettavo un rientro a scuola peggiore: le maestre erano gentili e anche i nuovi compagni. Quelli più grandi che erano stati cattivi con me erano già andati via, frequentavano le elementari. Così ho iniziato a frequentare l’ultimo anno di asilo. Pochi mesi dopo, però, ci siamo trasferiti in un piccolo paese nella provincia di Foggia.

Lì ho trascorso tre-quattro anni molto belli perché avevo degli amici e le persone non mi ridevano in faccia. In particolare ricordo un amico speciale: i primi tempi in classe non parlavo con nessuno e neanche lui; un giorno, durante la ricreazione, venne a sedersi vicino a me: voleva conoscermi; abbiamo cominciato a scambiarci dei giocattoli anche se sapevamo che non potevamo portarne in classe. Si chiamava Gerardo ma io capivo sempre Gelato!

Poi quando ho iniziato il quarto anno delle scuole elementari sono tornato per un mese in Cina, per aggiornare i documenti. Dopo questo mese in Cina, sono tornato in Italia e la mia famiglia si è trasferita in un altro paese sempre in Abruzzo. Il mese trascorso in Cina mi aveva fatto dimenticare completamente l’italiano: non capivo quasi più niente. L’anno trascorso in quel paese è stato il più brutto: a scuola, durante la ricreazione provavo a parlare con qualcuno senza successo. La scuola aveva un cortile con un giardino e durante la ricreazione si poteva uscire per giocare a calcio o a carte; ricordo che un giorno volevo assistere ad una partita e chiesi ai ragazzi che giocavano se potevo guardare ma loro mi rifiutarono. Sono rimasto un po’ male! Avevo comunque la mia famiglia e alcuni compagni cinesi con i quali trascorrevo un po’ di tempo. A casa da solo mi annoiavo un po’ anche perché mio padre lavorava in un negozio lontano dal paese in cui vivevamo e quindi era spesso fuori.

Sempre quell’anno ci siamo trasferiti ancora e siamo andati a vivere nel paese dove viviamo oggi.

INT. Raccontaci qualcosa della tua famiglia. Come mai la tua famiglia scelse di lasciare la Cina e trasferirsi in Italia?

H. Mio padre in Cina era medico e non ha mai avuto problemi economici: quando mia sorella voleva qualcosa anche se molto costosa la otteneva senza problemi. Un giorno chiesi a mio padre il motivo per cui avesse deciso di lasciare la Cina e il suo lavoro per trasferirsi in Italia. Egli rispose che voleva avere un secondo figlio, possibilmente maschio e mi spiegò che in quel periodo in Cina non si poteva avere più di un figlio per famiglia. Questa risposta mi ha sorpreso molto.

In Italia viveva già mio zio, il fratello di mia madre; con il semplice aiuto di un dizionario italiano-cinese, mio padre è riuscito ad imparare giusto qualche parola indispensabile in italiano e mio zio gli è stato vicino per i primi tempi.

INT. Puoi spiegare cosa hai provato nell’ascoltare le parole di tuo padre?

H. Come ho già detto, la risposta di mio padre mi ha sorpreso perché non mi aspettavo una risposta del genere, quasi non mi sembrava possibile; in seguito gli ho rivolto la stessa domanda più volte, quasi per avere una conferma della risposta. Mi sono sentito contento e anche emozionato: ho capito di essere molto amato.

INT. Qual è il tuo legame con la Cina? Torni spesso in Cina?

H. Non torno spesso in Cina anche perché gli impegni scolastici non me lo consentono. Potrei andarci durante l’estate ma in Cina l’estate fa molto caldo e non voglio soffrire il caldo. Devo andare soltanto quando scadono i documenti.

Sento di avere un certo legame con la Cina ma non ci penso tanto da volerci andare. Oggi con internet, pur essendo in Italia, sono sempre informato su ciò che accade in Cina; inoltre ho alcune applicazioni cinesi che mi consentono non soltanto di conoscere le notizie importanti ma anche di continuare a praticare la lingua.

In Cina ho ancora i miei nonni, quasi tutti gli zii ma devo dire che non mi mancano perché, essendo nato in Italia, li ho incontrati davvero poche volte e non ho con loro un rapporto stretto.

INT. Il legame della tua famiglia con la comunità cinese è molto stretto; come si concilia la tua vita da italiano con le abitudini cinesi?

H. Il legame con la comunità e le abitudini cinesi è speciale, nel senso che quando vogliamo seguire le tradizioni cinesi possiamo farlo senza problemi: ci sono i supermercati che vendono cibo cinese o i ristoranti dove puoi ordinare menu tipici. Sinceramente però preferisco il cibo italiano: il cibo cinese l’ho gradito poco anche quando sono stato in Cina.

In casa festeggiamo le feste tradizionali cinesi ma anche le feste italiane e in quelle occasioni incontriamo i parenti che vivono in Italia; in questo modo festività cinesi e italiane si integrano tra loro come le diverse culture.

INT. Come ti senti quando pensi alla Cina?

H. Sono cinese però la Cina per me è un paese che conosco poco, è un luogo dove sono tornato poche volte e non comprendo bene tutte le loro abitudini. Ricordo che, durante uno degli ultimi miei soggiorni in Cina, mi sono sentito molto in imbarazzo quando in un ristorante, avendo il telefono scarico, chiesi la cortesia di poter avere un caricatore: la cameriera un po’ stupita e infastidita mi ha fatto notare che i caricatori si potevano prendere in affitto e non c’era bisogno di chiederli in un ristorante. Evidentemente la cameriera era rimasta sorpresa per il fatto che un ragazzo di diciotto anni come me non sapesse una cosa così semplice! In quella occasione ho capito di aver fatto proprio una brutta figura e mi sono sentito fuori luogo.

Ho capito che in Cina ci sono abitudini completamente diverse da quelle italiane. Un esempio è il modo di pagare: quando sono stato in Cina ho utilizzato le banconote ma tutti mi guardavano male. I cinesi ormai usano tutti modalità di pagamento online: basta avere un telefono!

Anche camminare per la strada mi è sembrato strano: ad un certo punto mi sono chiesto dove fossi e cosa stessi facendo lì! La differenza tra il paesino dove vivo e una città della Cina è sicuramente tanta!

INT. In che cosa ti senti cinese e in che cosa ti senti italiano?

H. Certamente le mie origini cinesi influiscono molto sul mio essere italiano. Quando ero piccolo sentivo di più questa distanza: alle scuole elementari, per esempio, io non sapevo che esisteva il diario su cui segnare i compiti, anche perché nessuno me lo aveva detto. In Cina i compiti vengono segnati su un foglio direttamente dalla maestra e i libri vengono utilizzati prevalentemente a scuola.

Ricordo la prima volta che la maestra in Italia mi ha assegnato i compiti per casa: li ha scritti sul mio quaderno utilizzando però parole puntate, tipo libro con L. e pagina con pag.; non capivo cosa significassero quelle parole e mio padre chiese addirittura ad alcuni clienti il significato di quelle espressioni. Non ricevendo alcun aiuto da queste persone, mio padre si è recato in un bar vicino al negozio per chiedere se conoscessero qualcuno che potesse dare una mano per fare i compiti. In quella occasione mio padre ha conosciuto una ragazza, studentessa universitaria di vent’anni che ha iniziato ad aiutarmi non soltanto con i compiti ma anche ad imparare l’italiano.

INT. Parliamo del tuo rapporto con la scuola e con i tuoi compagni. Quando eri piccolo ti piaceva andare a scuola o qualche volta ti sei sentito un po’ a disagio, per qualsiasi motivo?

H. La situazione scolastica è nettamente migliorata quando mi sono iscritto alle scuole superiori. Quando sono andato alle scuole medie ho avuto molte difficoltà: non capivo ben quello che dicevano, c’era sempre qualcuno che imitava il modo di parlare dei cinesi e questo mi faceva soffrire molto. Alle scuole superiori invece non ho trovato nessuno che mi prendeva in giro e mi è sembrato fantastico! Non mi sono mai sentito escluso dagli altri; i compagni mi hanno sempre accolto come anche i professori.

INT. Cosa ti aspettavi e cosa ti aspetti dalla scuola, dai tuoi compagni e dagli insegnanti?

H. Quando ho iniziato a frequentare le scuole superiori, ero sicuro di parlare e scrivere bene in italiano finché un giorno una professoressa mi ha fatto notare che la lingua che utilizzavo non era italiano corretto. Da quel momento ho capito cosa sbagliavo e ho iniziato ad impegnarmi di più nella lingua.

INT. In che modo sei riuscito ad impegnarti di più? So che tu comunque in casa parli cinese non italiano.

H. Mi sono impegnato di più perché ho iniziato a parlare più spesso con i miei amici, sia a scuola che fuori: loro mi correggevano e io ho cominciato ad avere più fiducia nella lingua e nella mia capacità di esprimermi in italiano. Qualche vota ho anche utilizzato internet in italiano per cercare di fare qualcosa in più, ma l’aiuto maggiore l’ho ricevuto dai miei compagni.

INT. Pensi che la scuola abbia fatto quello che ti aspettavi facesse nei tuoi confronti?

H. Si, penso che la scuola mi abbia sempre considerato Italiano, anche se non sempre gli insegnanti hanno dato importanza al fatto che io parlassi male la lingua. In questo sono stato aiutato molto da quella ragazza che mi ha seguito nello svolgimento dei compiti.

Posso affermare comunque che, soprattutto nella scuola superiore, non mi sono mai sentito escluso.

INT. C’è stato un momento preciso nel quale hai capito di non essere escluso?

H. Si, il momento preciso in cui ho sentito di non essere escluso è stato quando la professoressa di italiano mi ha fatto vedere gli errori sul mio primo compito in classe e mi ha fatto capire dove sbagliavo; ho capito che lei mi correggeva perché mi voleva bene e temeva che le altre persone, a scuola o fuori, avrebbero potuto tenermi a distanza per il fatto che non riuscivo ed esprimermi bene in italiano. Anche i compagni mi hanno aiutato molto.

INT. Proiettiamoci nel futuro. Come ti immagini tra 20 anni? Sarai ancora in Italia o ti sarai trasferito in Cina per vivere e lavorare?

H. Sinceramente non saprei, non ci ho ancora pensato a cosa fare dopo la scuola. Penso però di rimanere in Italia: la conosco meglio e credo di avere qui maggiori opportunità.

INT. Cosa consiglieresti ad un ragazzo appartenente ad una cultura diversa che ha difficoltà ad inserirsi in un nuovo contesto culturale?

H. Il consiglio che potrei dare è di non essere timido: se provi a parlare con gli altri, questi rispondono e ti accettano. Bisogna parlare di più, anche se sbagli: se parli di più migliori anche la lingua. Se qualcuno ti invita ad uscire, esci; fai qualche sport e cerca di stare con le persone: in questo modo hai occasione di esercitare la lingua, di imparare più cose e piano piano avrai sempre degli amici intorno.

CLASSE 4L

Giulia Alfinito, Federica Antolini, Klea Brahimaj, Sara Cautela, Denis Cipriani, Cristianne D’Andrea Petrella, Angela Di Giulio, Mattia Di Gregorio, Filiberto La Civita, Gioia Mallamace, Michael Marulli, Ilaria Mingolla, Silvia Natale, Alessandro Olivieri, Annarita Tantaro


INTERVISTA 2

II Il protagonista della seconda intervista è Keita, un ragazzo del Mali: dopo una serie di eventi tragici, è giunto in Italia e poi nella nostra scuola, dove si è diplomato due anni fa. Attualmente vive a Sulmona, lavora e studia Giurisprudenza ed è perfettamente inserito nel contesto sociale.

La sua è una storia incredibile ed emozionante in cui si intrecciano eventi, uomini, luoghi, situazioni che ci capita di vedere in televisione e che sembrano tanto lontani dalla nostra realtà. La storia di Keita suscita sentimenti autentici e allo stesso tempo contrastanti, sentimenti che fanno riflettere e pongono l’attenzione su uno dei problemi più impellenti degli ultimi anni.

L’incontro avviene virtualmente sulla piattaforma abitualmente utilizzata dalla scuola per lo svolgimento delle lezioni curricolari. L’intervista è condotta dalle alunne della classe 5L che hanno anche curato la strutturazione delle domande.

INT. Keita, raccontaci qualcosa di te, del tuo paese di origine, di come e perché sei arrivato in Italia.

K. Il mio Paese è il Mali: dopo l’occupazione, i guerriglieri islamisti hanno instaurato una loro legge a cui tutti dovevamo sottostare. Fra le varie cose era vietato avere rapporti sessuali fuori dal matrimonio, io ero innamorato di una ragazza e lei aspettava un bambino. Sono dovuto scappare, lasciare la mia famiglia perché mi avrebbero ammazzato; lei invece ha dovuto subire le bastonate da parte della famiglia, oltre 100 e per questo è morta.

E così ho dovuto lasciare il mio paese per andare in Algeria grazie ai soldi che mi ha dato il marito di mia sorella che è un insegnante.

Quando sono arrivato in Algeria ho lavorato per circa 6 mesi in un cantiere gestito dai cinesi: dormivamo anche là, facevamo tutto là. Io avevo appena 18 anni e il lavoro era pesantissimo. Iniziavamo a lavorare dalle 7.30 fino alle 22.00 per 30 euro al giorno. Non è stato facile. Sono rimasto lì fino all’ aprile del 2017, quando le autorità algerine hanno iniziato a rimpatriare tutti i ragazzi di colore, ma non per farli tornare nel loro paese ma per lasciarli al confine, nel deserto tra il Mali, Algeria e Niger. Non mi sentivo pronto a rimpatriare e quindi ho deciso di andare in Libia. Sapevo che lì c’era la guerra, ma non sapevo che c’era la schiavitù, perché nessuno me lo aveva detto. Con altri 5 ragazzi sono partito per la Libia e abbiamo fatto una settimana di viaggio prima di arrivare. Quando siamo arrivati, ci siamo divisi ed ognuno è andato per conto suo. Mi sono nascosto in una casa in costruzione e sono rimasto là fino alle 4 del giorno dopo. Non potevo uscire perché temevo che gli arabi mi fermassero e mi potessero mandare a lavorare nei campi come schiavo. Sono rimasto in questa casa fin quando ho visto passare un ragazzo di colore con il suo datore di lavoro, un arabo. Ho chiamato il ragazzo e gli ho spiegato la mia situazione. Lui mi ha ospitato nella casa che gli aveva dato il suo datore di lavoro; mi ha dato da mangiare, i vestiti e ciò di cui avevo bisogno. Sono rimasto con lui per circa 28 giorni. Poi ho chiesto a questo ragazzo se poteva chiedere al suo datore di lavoro di aiutarmi a venire qui in Italia. Non potevo rimanere più in Libia perché non avevo il diritto di lavorare, non potevo farmi vedere perché altrimenti mi avrebbero arrestato e non avevo i soldi per pagarmi l’uscita dalla prigione. Per uscire dalla prigione, se sei fortunato, puoi essere comprato come schiavo di lavoro nei campi.

Inizialmente questo ragazzo non voleva chiedere al datore di aiutarmi a venire in Italia, perché il viaggio è pericoloso, ma sono riuscito a convincerlo a parlare con il suo capo.

Così il giorno dopo ho incontrato questo signore che mi ha chiesto se fossi davvero convinto di intraprendere questo viaggio. Io ero convinto, non avevo scelta: preferivo morire in mare che rimanere in Libia schiavo di un contadino senza poter tornare a casa.

Questo signore mi ha messo in contatto con dei trafficanti e con altri ragazzi che volevano partire. Qualche sera dopo, intorno alla mezzanotte, i trafficanti ci hanno caricati su un gommone. Eravamo circa 135 persone e abbiamo preso la strada del mare. Abbiamo viaggiato tutta la notte e al mattino, verso le 7.00, ci siamo accorti che ci eravamo persi in mezzo al mare. Un elicottero è venuto in nostro aiuto e ci ha indicato la strada. Siamo così arrivati nelle acque internazionali dove è arrivata una grande nave che ci ha dato i giubbotti di salvataggio ed è andata via. Un mezz’ora dopo si è avvicinata al gommone una barca di pescatori tunisini. Loro ci hanno preso il motore del gommone e così siamo rimasti con il gommone senza il motore. Il gommone più tardi si è bucato e l’acqua è cominciata ad entrare. Poi ha cominciato a piovere e si è alzato il vento. Tutto insieme.

Noi cercavamo di togliere l’acqua dal gommone. Verso le 17 il gommone si è rotto definitivamente e siamo finiti tutti in mezzo all’acqua dove siamo rimasti per circa un’ora, finché è arrivata una nave che ci è venuta a salvare ma era troppo tardi perché 5 persone erano già morte.

Comunque questa nave ci ha salvati e dopo due giorni di viaggio siamo arrivati in Italia, a Trapani.

A Trapani ci hanno subito divisi e io sono stato portato al centro accoglienza di Pettorano sul Gizio dove sono rimasto per due anni e ora, dopo la scuola, vivo a Sulmona.

INT. Abbiamo preferito non interrompere il tuo racconto così duro e drammatico. Quali paure e quali emozioni hai provato durante il viaggio?

K. Non sono una persona che si lascia andare alle proprie emozioni, ma la paura più grande che ho provato era che mia mamma non sapesse del mio viaggio in Italia. Lei pensava che io stessi ancora in Algeria, non sapeva che io avessi intrapreso questo viaggio: se io fossi morto in mare lei non avrebbe saputo più nulla di me. Questo pensiero mi faceva soffrire molto.

INT. Parliamo del tuo arrivo in Italia. Come ti sei trovato a Sulmona? Ti sei integrato subito o hai avuto bisogno di un po’ di tempo?

K. Non è stato facile integrarmi, soprattutto perché non parlavo la lingua.

Inoltre, nei primi 8 mesi dal mio arrivo, ho avuto dei grandi problemi psicologici che sono riuscito a superare grazie all’aiuto di una psicologa. E’ successo che, durante una discussione con un altro ragazzo presso il centro di accoglienza, ho reagito con violenza tirandogli una sedia in testa; il responsabile della comunità ha chiamato i Carabinieri ma, grazie al sostegno della psicologa, che è durato 8 mesi, sono riuscito a superare queste difficoltà. La stessa psicologa, poi, mi ha anche aiutato a conoscere e a studiare la lingua italiana, ha visto che mi piaceva studiare e così mi ha iscritto alla scuola media serale. L’anno successivo mi sono iscritto al Liceo Economico Sociale dell’Istituto Vico. Comunque, l’integrazione è stata molto difficile, proprio a causa della lingua: ho fatto molta fatica ad impararla in così poco tempo.

INT. Come ti sei sentito quando sei arrivato nella nostra scuola? e quanto ha fatto la scuola per te?

Io non ero una persona molto socievole a tal punto che, quando incontravo un gruppetto di ragazzi, cambiavo anche strada per paura di incontrarli.

Quando mi sono iscritto a scuola, ho iniziato ad interagire con le persone e questa è stata la svolta per la mia integrazione. Ciò che mi ha colpito è stato l’atteggiamento della Preside che si è dimostrata subito favorevole alla mia iscrizione “ a condizione che tu dimostri ai tuoi compagni chi sei!”, così disse.

La preside mi ha spiegato che per iscrivermi avrei dovuto fare degli esami integrativi, io ho accettato ed ho sostenuto questi esami, grazie anche all’aiuto dei professori che mi hanno permesso di sostenerli.

Da quando mi sono iscritto a questa scuola, si è formata intorno a me come una famiglia, e non avrei mai pensato potesse accadere.

INT. Come e’ stato il rapporto con i tuoi compagni?

Personalmente con la classe non ho avuto mai nessun problema, ma mi è dispiaciuto di essere capitato in una classe divisa in tanti piccoli gruppi che tra loro non andavano d’accordo. Io sono stato benvoluto da tutti ma mi è dispiaciuto il fatto che dopo la scuola ci siamo persi perché comunque eravamo divisi, non c’erano grandi interazioni tra noi.

INT. Da quando sei arrivato in Italia hai fatto tanti progressi e tanti passi avanti. Ti va di raccontarci come e’ la tua vita adesso?

Si, la mia vita sta evolvendo, grazie anche all’aiuto costante dei professori della vostra scuola che ancora oggi mi aiutano economicamente per farmi studiare all’Università comprando i libri di testo.

Per quanto riguarda il lavoro, ho un contratto di cuoco in un ristorante, ma ora con la pandemia siamo fermi. Non è facile lavorare e andare all’Università, ma comunque se hai la voglia tutto è possibile. Dopo le lezioni vado a correre, mi piace molto correre e poi torno a casa a studiare. Nient’altro.

INT. Keita senti la tua famiglia? pensi di tornare da loro, di rivederli?

La mia famiglia non la sento spesso purtroppo, è molto difficile e pericoloso. Mia mamma per parlare con me deve andare a telefonare in montagna o da un’ altra città.

Tornare in Mali non è possibile perché il permesso di soggiorno che l’Italia mi ha concesso non mi permette di tornare nel mio Paese per la mia sicurezza e per la mia vita. Posso andare in qualsiasi altro Paese del mondo, ma non in Mali perché non ho la cittadinanza italiana che avrò dopo 10 anni di residenza qui.

INT. Come vivi la tua religione nel nostro paese?

A livello culturale devo dire che non ho alcun problema nel vostro Paese perché sapevo già tutto dell’occidente, leggi, norme. C’è una cosa che non capisco e non mi piace tanto, ma non mi permetto di giudicare: da noi la famiglia vive tutta insieme e non capisco le Residenze per gli anziani…Io non manderei mai i miei genitori in una RSA, non riesco proprio a comprendere questa cosa.

INT. Keita, il tuo vissuto e’ stato drammatico. Quando vedi i nostri ragazzi spensierati, talvolta superficiali, cosa diresti loro per farli sentire più consapevoli di quello che hanno?

Direi loro che sono stati fortunati nell’essere nati nella parte migliore del mondo e devono saper sfruttare questa occasione per diventare persone migliori non solo per se stessi, ma anche per i loro genitori e per tutta la comunità

INT. Torniamo a parlare dei tuoi studi. Quale facoltà frequenti e cosa vorresti diventare dopo la laurea?

Studio Giurisprudenza e mi piacerebbe diventare giudice, un domani!

INT. E la tua vita privata?

Quando sono venuto nella vostra scuola c’era una ragazza più grande che mi piaceva ma non parlavo la lingua, avevo timore e non sono riuscito ad andare verso di lei…è finito così.

INT: Cosa pensi che la scuola debba fare per migliorare l’accoglienza di ragazzi che provengono da terre così lontane, con culture e religioni diverse?

Per quanto riguarda l’accoglienza nella vostra scuola posso dire che è quasi buona, ma bisogna eliminare la paura del diverso ed eliminare il pregiudizio. Dobbiamo abbattere questo muro, per aiutare tanti ragazzi come me ad integrarsi. Se voi avete paura di venire incontro a noi, noi avremo dei pregiudizi nel venire incontro a voi. Prima di iscrivermi alla vostra scuola pensavo che voi foste tutti razzisti, ma invece ho scoperto che non è vero e che mi sbagliavo. E’ importante quindi andare incontro al diverso per facilitare l’integrazione, da entrambe le parti. Per eliminare il pregiudizio è necessario andare oltre la paura del diverso. Tutti abbiamo dei difetti, anche noi migranti, e tutti dobbiamo fare un po’ di sforzo per migliorarci…

INT. Penso sia proprio questo il senso dell’intercultura: avere un approccio interculturale significa che ciascuno deve fare un passo verso l’altro, venirsi incontro. Riesci a percepire quando una persona non e’ accogliente nei tuoi confronti?

Generalmente non giudico subito il comportamento di una persona.

INT. Come trascorri il tuo tempo libero, hai qualche amico con cui uscire?

Amico amico…no. Purtroppo non sono molto socievole e non sono riuscito a farmi amici e sto cercando di risolvere questo mio problema. Comunque mi sento con alcuni ragazzi che lavorano nel ristorante, ma non posso considerarli amici.

INT. Quando pensi al Mali, cosa ti manca?

Soprattutto mi manca il clima, il sole, i colori, i tramonti.

INT. Cosa diresti ad una persona che vive la tua stessa esperienza?

Di avere la pazienza, di non pensare solo al lato negativo delle cose, ma di guardare il lato positivo.

Ringrazio molto la Preside per non aver avuto pregiudizi su di me e di avermi permesso di iscrivermi e frequentare la vostra scuola.

Abrill Aular, Alice Di Tirro, Luisa Di Benedetto, Iolanda Iavarone, Milena La Civita, Martina Sito (5L)


INTERVISTA 3

III La terza intervista affronta la tematica del Body Shaming. La protagonista è una ragazza di 19 anni che frequenta il quinto anno del Liceo Linguistico. M. è oggi una giovane donna forte e determinata, che guarda al futuro con la consapevolezza di chi è riuscito a sanare le ferite interiori, quelle che fanno male più di ogni altra.

L’intervista è condotta da un piccolo gruppo di compagne di classe.

INT. Ogni persona vittima di bullismo nel periodo dell’ adolescenza ha una storia particolare. Qual è la tua?

M. La mia storia è particolare, credo…non penso che tutte le persone abbiano avuto la mia stessa storia, anche se ovviamente tutti ne hanno una diversa da raccontare. La mia è iniziata a scuola, nei primi anni di scuola, quando venivo insultata, criticata per il mio aspetto fisico.

Diciamo che sono stata molto fortunata perché era l’inizio dell’era di Internet e quindi non sono stata bullizzata sui social, ma a scuola e quando facevo sport.

INT. A che età hai cominciato a ricevere i primi commenti e da chi li hai ricevuti?

M. Ho subito BS durante i primi due anni delle scuole medie; principalmente erano i compagni di classe, ma anche quando praticavo sport ho sentito insulti e critiche sul mio corpo.

INT. Dove hai trovato la forza di reagire e di non farti sopraffare dalle critiche? il tuo carattere ti ha aiutato?

M. Sì, diciamo che il mio carattere è abbastanza forte e mi ha aiutato a capire quanto ero e sono forte. In realtà, non mi sono mai fatta abbattere da questa cosa.

INT. Quando hai iniziato a renderti conto o a preoccuparti di più di questi commenti?

M. Ho iniziato a preoccuparmi quando mi sono accorta che queste critiche erano giornaliere e che ogni minimo gesto era un insulto. Ma non mi ha mai preoccupato al 100%… nella mia vita il pensiero non era sempre e solo quello.

INT. Di tutte le persone importanti che ci sono state nella tua vita, quali credi siano state fondamentali ed indispensabili nei momenti in cui ti sentivi più persa?

M. Assolutamente i miei amici, che sapevano cosa stessi passando e mi hanno aiutato molto: mi hanno dato la forza di non pensarci troppo. Poi ovviamente la famiglia: ho un bellissimo rapporto con i miei genitori, a loro raccontavo tutto quello che stavo passando…

INT. Ci sono state persone che consideravi amiche e che ti hanno tradito durante questo periodo?

M. Sì, ci sono state ed io inizialmente ero incredula: avevo un bel rapporto più o meno con tutti e non potevo credere che potessero dirmi certe cose!…Diciamo che poi ho imparato ad accettare questa nuova situazione, capendo chi era realmente mio amico e chi no. C’era in particolare una mia amica molto stretta che non mi insultava ma che non mi è stata molto d’aiuto perché a volte, davanti alle critiche e alle cattiverie che mi venivano rivolte, si limitava a stare zitta.

INT. Da parte della scuola c’è stato qualche aiuto o anche qualche professore che magari si è accorto della situazione ed è intervenuto?

M. C’è stato un prof che si è reso conto della situazione e mi ha aiutato chiedendomi se potesse fare qualcosa. Ho parlato con lui qualche volta ma devo dire che la scuola in sé come istituzione non ha fatto praticamente quasi nulla.

INT. Cosa consiglieresti ai genitori di vittime di Body Shaming che non riescono a trovare una soluzione o ad aiutare i propri figli?

M. Sicuramente consiglio ai genitori di stare vicino ai propri figli, di parlare con loro, di osservare i loro comportamenti: se si accorgono di atteggiamenti diversi da quelli abituali, se rispondono in modo sgarbato, se stanno sempre da soli, devono cercare di capire il motivo e vedere se ha bisogno di un supporto, di un medico o di un’altra persona. Il compito dei genitori è quello di trovare sempre il modo di far stare bene il proprio figlio.

INT. Cosa pensi dovrebbero fare le Istituzioni per contrastare questo fenomeno?

M. Credo che le istituzioni possano e debbano darsi da fare per combattere ed eliminare questo fenomeno. Soprattutto nel periodo della scuola media, periodo in cui ci sono dei grossi cambiamenti nei ragazzi e nelle ragazze, è necessario che docenti e studenti siano formati su queste tematiche; è necessario che specialisti del settore educativo facciano capire ai più giovani cosa possano provocare nelle vittime determinati commenti o apprezzamenti di quel tipo, come si senta un’altra persona e, soprattutto facciano capire ai professori come fare per osservare i propri alunni, individuare e comprendere i piccoli cambiamenti che avvengono negli atteggiamenti quotidiani dei ragazzi e delle ragazze; so che non è un percorso facile ma bisogna fare qualcosa per fermare il fenomeno del Body Shaming che provoca molte ferite.

INT. All’inizio abbiamo parlato della tua storia e del rapporto che avevi con il tuo corpo. Come è cambiato il tuo pensiero durante gli anni e soprattutto, pensi che il tuo percorso ti abbia cambiata in qualche modo?

M.: Mi ritengo fortunata perché, come ho detto all’inizio, gli insulti e le critiche sono state una spinta per andare avanti e capire meglio il mio carattere ma soprattutto il mio corpo. Ovviamente, rispetto alla scuola media sono cambiata, come tutti, ma il mio corpo per me non è stato mai un problema…anzi! All’inizio non capivo perché mi dicessero determinate cose, perché io non mi vedevo così! Ho sempre accettato il mio corpo. Le critiche e gli apprezzamenti cattivi mi hanno aiutata a crescere mentalmente e anche a fortificarmi nel carattere: grazie a questi episodi sono riuscita a rendermi conto di quanto io sia forte e di come, magari, riesca a risolvere molte cose da sola. Si, ho dei chili di troppo, ma non mi importa! l’importante è altro.

INT. Quanto è importante il ruolo del gruppo in queste situazioni? Nel tuo caso c’è stato un bullo o più compagni che si facevano forza insieme?

M. Non ho quasi mai ricevuto offese pesanti da parte del gruppo, piuttosto erano battute, critiche che venivano da singole persone che dopo un po’ iniziavano a stancarmi.

INT. In che modo ti offendevano, ti va di dirlo?

M. Non ricordo molto, quando sentivo alcune cose mi chiudevo le orecchie, mi dicevo “non mi interessa perché io non sono così”. Ricordo però una espressione in particolare: “Torna tra i tuoi compagni bufali”.

Questa offesa mi veniva fatta proprio da una persona che ce l’aveva proprio con me. Per il resto solo critiche sul peso, sul mio modo di vestire, su come potesse notarsi di più la mia pancia o le mie cosce… Per mia fortuna non ricordo tutte le cose che mi dicevano.

INT. In quel periodo praticavi alcuni sport. Questi episodi dove avvenivano, nello spogliatoio o in campo?

M. In realtà in entrambe le situazioni, ma io non ci facevo caso. Per me potevano tranquillamente parlare perché tanto io non ascoltavo. Se avveniva nello spogliatoio, mi cambiavo ed andavo via.

Certo dopo un po’ la situazione diventava pesante ma non mi sono mai preclusa la possibilità di praticare altri sport.

INT. Infatti prima hai detto che il tuo carattere ti ha salvata, questo è sicuramente fondamentale, ma ci sono tanti ragazzi e ragazze che non hanno una buona considerazione di se stessi e che possono facilmente arrivare a disturbi alimentari, depressione, a non uscire più, o comunque a conseguenze molto gravi. Quale consiglio, incoraggiamento ti senti di dare ad un ragazzo/a che sta vivendo in questo momento la situazione che hai vissuto tu, anche peggiore? Oggi sui social continuamente si parla di gravi situazioni di Body Shaming, situazioni che vengono amplificate dal potere della condivisione che coinvolge tutti, anche vip, attori, gente famosa, senza risparmiare nessuno. Quale consiglio ti senti di dare ad un ragazzo che sta vivendo questa problematica?

M. Il mio consiglio è sicuramente di parlarne. Se una persona non ha un carattere forte, se non sa come gestire questa situazione, deve assolutamente parlarne con qualcuno, anche se non con i genitori, nel caso in cui non si ha con loro un buon rapporto: parlarne con un’amica, un professore, ma parlarne. Parlarne ti aiuta a capire che non sei come ti giudicano gli altri.

INT. Nel tuo caso la scuola ha fatto poco. Ma, secondo te, cosa può fare la scuola, cosa possono fare i professori se le cose spiacevoli o le cattiverie non avvengono durante la lezione ma nei luoghi dove i professori non ci sono: negli spogliatoi della palestra o in bagno durante la ricreazione? E’ necessario che l’alunno si confidi con il docente?

M. Sì assolutamente. I professori devono osservare i propri alunni per accorgersi di un atteggiamento diverso tra il prima e il dopo della ricreazione, o se il ragazzo o la ragazza improvvisamente ha cambiato il proprio comportamento e tende ad isolarsi: questi possono essere piccoli segnali di una sofferenza.

INT. Cosa pensi di quelli che guardano e non fanno nulla, di chi assiste e non interviene. Spesso il bullo quando sta da solo è innocuo, ma diventa forte quando si sente sostenuto dai gregari. Pensi che sia il caso di rivolgere un appello ai ragazzi che sanno, vedono e non prendono posizione, diventando complici di queste violenze?

M. Certamente. Quando le cose accadono in classe e tutti vedono, sentono critiche ed insulti: bisogna dire basta! anche se la persona che subisce non è molto simpatica, bisogna intervenire, fermare le violenze. A me è successo di rispondere: ho detto basta! E con me anche le mie amiche. E alla fine hanno smesso, sono stati in silenzio: è capitato anche che hanno chiesto scusa. Non bisogna mai girare lo sguardo da un’altra parte, ma parlare e dire basta!

Abrill Aular, Alice Di Tirro, Luisa Di Benedetto, Iolanda Iavarone, Milena La Civita, Martina Sito (5L)

CLASSI COINVOLTE: 4 L Liceo Linguistico; 5 L Liceo Linguistico (Aular, Di Tirro, Di Benedetto, Iavarone, La Civita, Sito)