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Attivismo performativo: un nuovo modo per fare la differenza?

                                     

 

Di Gaia Porrari

 L’attivismo performativo che parte dai ragazzi, dagli influencer o addirittura dalle grandi compagnie, è solo l’ennesimo fenomeno della nostra generazione che sfrutta la promozione di istanze politiche sui social media per scopi non genuinamente devoti alla causa. Ma di cosa si tratta esattamente? Parliamo di una tipologia di attivismo praticata prevalentemente sui social media che consiste nel condividere post informativi a proposito di temi di attualità, solitamente relativi alla giustizia sociale.

 Questo fenomeno ha iniziato ad acquisire una larghissima diffusione nel giugno del 2020, quando negli Stati Uniti è esploso il movimento di ‘Black Lives Matter’ in seguito all’uccisione di George Floyd. Questo momento è stato un risveglio per milioni di persone in tutto il mondo, che hanno iniziato a rendersi conto di quanto il razzismo sia un problema gravissimo non ancora eradicato, e che si possa affrontare e combattere soltanto con un’unione di forze coese. Insieme all’ondata di proteste ed eventi simbolici, un anno fa le nostre pagine social sono state sommerse da post informativi condivisi non solo da chi di competenza, ma diffusi anche tra gli utenti comuni. Una delle caratteristiche – positiva ma allo stesso tempo potenzialmente dannosa – dei social infatti, è quella di poter dare a tutti una piattaforma per poter esprimere le proprie opinioni e talvolta divulgare messaggi. Apparentemente quale può essere il danno di una pratica simile, nata esclusivamente dalle buone intenzioni di rendersi partecipi alla lotta contro il razzismo? Il nodo si scioglie quando ci si inizia a rendere conto di quanto questo fenomeno abbia reso leggero e accessibile il ruolo dell’attivista: è diventato facile definirsi tali soltanto dopo aver postato un simpatico cartoncino virtuale che racconta in maniera (talvolta eccessivamente) semplicistica dell’argomento di tendenza del giorno. Agire nel concreto passa automaticamente in secondo piano, in quanto più faticoso e non più inevitabilmente necessario a conquistare l’opinione pubblica.

 Avete presente le raccolte fondi per beneficienza iniziate dalle celebrità esclusivamente per rimettere in sesto la propria immagine e guadagnare qualche punto sull’opinione pubblica? Ecco, siamo davanti all’evoluzione di questo stesso fenomeno. Per evitare l’etichetta di “razzisti” o “misogini” o qualunque altro appellativo potenzialmente dannoso per la propria carriera, ormai agli influencer bastano una serie di click. Condividere sulla propria piattaforma è sufficiente per diventare portavoci di una determinata idea, spesso celando una spaventosa superficialità. D’altronde, il mondo non è nuovo a tentativi di lucro su problemi umanitari: il lato più oscuro infatti di questa faccenda si ha nel momento in cui grandi compagnie adottano gli slogan dei movimenti di protesta come ‘Black Lives Matter’. Un po’ come cercando di mandare il messaggio che si può ancora comprare o usufruire dei servizi di quella compagnia, in quanto questa ha delle sane morali. Per esempio possiamo ricordarci di quando il famoso marchio L’Oreal Paris ha postato una foto supportando il movimento di protesta, dopo – tre anni prima – aver licenziato Munroe Bergdorf, modella transgender nera, che si era espressa contro la supremazia bianca. Così molto semplicemente, l’associazione ha dimostrato al mondo di essere in regola per poter andare avanti con la sua attività.

Ma guardiamoci bene dal condannare tutto ciò che vediamo sui social: può essere difficile distinguere l’attivismo di superficie da quello sincero ed efficace, il quale spesso deve comunque ricorrere al mezzo dei social per avere più risonanza possibile: Il comportamento deve cambiare l’atteggiamento, non può essere l’opposto. Solo sostituendo il modo di approcciare l’attivismo, scavando oltre la superficialità, informandosi e agendo nel concreto verso il cambiamento potremo dare un senso all’apparenza dei social.