L’impatto degli allevamenti intensivi sul clima

di Alice Casagrande ed Eva Mercadante, 4F liceo Volta Milano

Il legame tra il settore dell’allevamento e le emissioni di gas serra

Innalzamento del livello del mare. Piogge acide. Foreste in fiamme. Siccità. Quasi ogni giorno sui giornali vengono riportate notizie simili. E la colpevole è sempre la stessa: la crisi climatica. Ma ad essa si è preparati: da decenni viene insegnato che per salvare il pianeta si deve fare la raccolta differenziata, ridurre il consumo di plastica usa e getta e spegnere le luci quando si lascia una stanza. Insomma, ci hanno insegnato che piccoli gesti quotidiani, se praticati da tutti, salveranno il pianeta. La verità, però, è che questi gesti, per quanto possano alleviare la sofferenza inflitta alla terra, non saranno mai sufficienti per salvarla.

Per capire il perchè, bisogna conoscerne le cause. Anidride carbonica, metano, monossido di azoto e gas fluorurati intrappolano parte del calore solare nell’atmosfera impedendone la fuoriuscita nello spazio e causando l’innalzamento delle temperature sulla terra. I gas serra possono essere sia di origine naturale che umana e tra le principali cause della loro diffusione ci sono l’utilizzo di combustibili fossili e la deforestazione. Gli allevamenti intensivi contribuiscono ad entrambi i fenomeni responsabili del rilascio di gas serra, creando quindi una combinazione letale per il pianeta. 

Solo da pochi anni è stato ufficialmente riconosciuto il pericolo degli allevamenti intensivi per la terra e alcuni dei più importanti enti ambientalisti ancora non ne parlano. Sono così dannosi perché, come affermano i rapporti FAO, sono responsabili di più della metà dei gas serra presenti nell’atmosfera: qui gli animali producono il 72% di tutto il metano derivante da attività umane, soprattutto a causa dei loro processi digestivi. Sono inoltre la causa di gran parte delle emissioni di monossido di azoto, proveniente da due fonti principali: l’impiego di fertilizzanti chimici a base di azoto, senza i quali l’agricoltura intensiva non potrebbe sussistere; le enormi quantità di letame prodotte e lasciate al’aria aperta facendo sì che le evaporazioni si accumulino nell’atmosfera sotto forma di monossido di azoto, il più potente dei gas serra per effetto riscaldante. Infine, la respirazione degli animali stipati produce esorbitanti quantità di CO2 (oltre il 20% delle emissioni totali); ad aggravare tutto ciò, vi è la consistente distruzione di svariati ettari di foreste. Circa l’80% della deforestazione dell’Amazzonia è dovuta agli allevamenti intensivi, per destinare cioè i terreni al pascolo e alla produzione di mangime. E questo non è tutto: i terreni utilizzati diventano presto inutilizzabili perché sfruttati eccessivamente, quindi il deserto rimpiazzerà presto la rigogliosa foresta. È chiara quindi la gravità del fenomeno. Se l’allevamento intensivo non verrà contrastato in maniera adeguata andrà a intaccare sempre più risorse e territori. 

Le responsabilità di questo fenomeno non vanno attribuite solamente ai paesi limitrofi alla foresta Amazzonica, anzi: secondo un nuovo report del WWF, l’Unione Europea è il secondo più grande importatore mondiale di prodotti derivati dalla sua deforestazione. L’Italia, inoltre, sempre secondo il WWF, è tra gli otto paesi europei che da soli, tra il 2005 e il 2017, hanno contribuito all’80% della deforestazione collegata alle importazioni Ue dai paesi tropicali. 

Sorge ora naturale la domanda: perché allora nessuno ne parla? Il problema è così poco discusso perché il consumo di carne e derivati animali è radicato nella tradizione di quasi ogni popolo e perché le industrie del settore sono profittevoli. Per comprendere meglio, basta pensare a una qualunque festa di famiglia: il momento più importante del Ringraziamento americano è il taglio del tacchino, mentre in Italia non può mancare l’agnello a Pasqua e in generale nelle varie ricorrenze affettati e carne appaiono a più portate. I derivati animali sono perfettamente integrati nella quotidianità e una dieta che ne prende le distanze viene percepita non come un semplice rifiuto dell’alimento ma come un attacco ai valori di famiglia e tradizione. Questo atteggiamento viene poi enormemente supportato dall’industria della carne e dei derivati animali che pubblicizza i suoi prodotti dando l’idea che essi provengano da ambienti idilliaci e fattorie circondate da infiniti spazi verdi, dove gli animali vivono felici. Nella realtà la crescente richiesta di derivati animali ha reso impossibile la produzione di carne, latte e uova in allevamenti rispettosi dell’animale e del suo naturale ciclo di vita: gli animali sono stipati uno sull’altro, le mucche vengono inseminate artificialmente ogni anno affinché producano latte – sono quindi gravide per gran parte della loro vita – e le galline vengono ingannate costantemente sulla durata del giorno, manipolando la quantità di luce che ricevono affinché producano più uova.

L’industria dei derivati stessa è favorita dalle leggi che permettono di continuare lo sfruttamento di animali e ambiente: un esempio recente è la Pac (Politica agricola comune) votata alla fine dello scorso anno dal Parlamento Europeo, che stanzia 387 miliardi di euro per allevamenti sottoposti a regolamentazioni ambientali così vaghe da fare sembrare il provvedimento un incentivo allo sfruttamento intensivo di terra e animali. Se quindi neanche la legge regolamenta adeguatamente il problema, come potrà essere mai risolto? In attesa di una presa di coscienza e di azione da parte delle istituzioni, ogni cittadino può negare il proprio appoggio agli allevamenti intensivi limitando, se non annullando, il proprio consumo di carne e derivati animali. In questo modo non parteciperà al profitto di questa industria che si troverà costretta a diminuire la produzione e alzare i prezzi, tornando a un modello sostenibile di allevamento e alleviando i danni inflitti al pianeta.